«La basilica? Laggiù, dietro la tendopoli», indicano gli alpini all’incrocio. E ti trovi in mezzo a una geometrica perfetta falange di tende blu. Qualcuno, a un filo, ha già steso il bucato. Due bambini si rincorrono, il più piccolo ha un foglio col suo nome incollato sul petto: Pietro, si chiama. Le tende degli sfollati di questa periferia dell’Aquila sembrano strette vicino alla basilica come in cerca di protezione. Collemaggio, duecentesca meraviglia abruzzese eretta da Pietro da Morrone, futuro Celestino V, Papa del «gran rifiuto», esternamente pare quasi salva. Protetta dalle impalcature di un restauro la facciata, e il lato sinistro, allo sguardo di chi s’avvicina, sembra aver retto la terribile spallata. Ma se avanzi e allunghi lo sguardo attraverso la grande Porta del Giubileo socchiusa, vedi lo sfacelo: montagne di travi e detriti sotto al sole, nell’ampia breccia del tetto crollato. È un guscio vuoto Collemaggio, la basilica dove fu incoronato Celestino V, il 29 agosto 1294, con una festa immensa di popolo e di principi. L’aveva voluta, l’ex monaco Pietro, sul luogo del suo ingresso all’Aquila, di ritorno dall’incontro con Gregorio X, a Lione. Qui Pietro si era fermato a dormire, qui aveva sognato la Madonna che gli chiedeva, in quel luogo, una grande chiesa. Ci vollero sette anni, nel Duecento, per costruire questa meraviglia. La guardi, in mezzo alla polvere che ancora al passaggio dei mezzi di soccorso si solleva come fumo dalle braci di un incendio: e ti chiedi quanti ce ne vorranno per ricucirne le ferite, oggi. Davanti alla Porta giubilare il rettore, don Nunzio Spinelli, mostra in questi giorni di rovina una tempra ottimista. Il 28 e 29 agosto a Collemaggio, da oltre settecento anni, c’è la Perdonanza, il rito di perdono e indulgenza decretato da Celestino alla sua nomina. Vengono qui in centomila. Collemaggio è il cuore cristiano dell’Aquila e dell’Abruzzo. Vengono da lontano; tornano anche gli emigranti – e quanti – partiti da questa terra. E don Nunzio nel rombare dei motori delle gru non si arrende: forse, dice, si può mettere la struttura in sicurezza, almeno, per l’estate. Forse la Perdonanza si può fare. E si passa una mano sulla fronte, come a scacciare paura e ricordi. Di quella notte stanca dopo la folla della domenica delle Palme, del sonno interrotto brutalmente dal sussulto rabbioso del letto e dal gemere dei vecchi muri. Dopo pochi minuti, nel buio pesto, il sacerdote ha aperto la porta che dalla canonica s’affaccia in basilica: «Allora ho visto il cielo. La luce della luna dalla voragine del tetto crollato rischiarava le navate». E Celestino? Don Nunzio ha pensato al santo. La cupola sopra la sua tomba era crol- lata. «Ma la teca di cristallo con le sue spoglie, intatta», dice, e sorride. Ora le gru issano la cinquecentesca Madonna di legno, quasi integra, solo le mani spezzate. Un segno forse, in questi giorni di strazio. Ma a pochi metri nelle tende del campo rannicchiate davanti alla basilica come attorno a una chioccia gli sfollati vivono la loro faticosa mattina. Incroci una suora, non giovane, indaffarata. Suor Annamaria, delle Francescane minori di Gesù bambino, dell’Istituto di santa Maria degli Angeli – qui accanto. Una scuola con duecento bambini. (Grazie a Dio, pensi, è accaduto di notte). Ventiquattro sorelle, di cui in tante molto anziane, in un convento ottocentesco. Madre, come avete fatto a mettervi in salvo? Sorride lei, allarga le braccia, come a dire: in verità, non so. «All’urto, al boato siamo scese in veste da notte, le più giovani hanno aiutato le anziane a scendere come potevano le scale. Sono state loro, però, a indicarci la sala più sicura del convento, quella col soffitto a volte. Perché sapevano, gliel’avevano detto i loro vecchi in questa terra che trema da sempre, che le volte reggono meglio le spinte del terremoto. Faceva freddo, le più vecchie tremavano, alcune di noi sono tornate indietro a prendere delle coperte. È strano: in quegli istanti scordi la paura, se hai qualcuno più debole di te da proteggere». E poi, nel buio della corrente saltata, nel silenzio del telefono isolato, ventiquattro suore strette assieme in una stanza a pregare, nell’attesa dell’alba. Suor Annamaria confessa che non smetteva di pensare ai bambini di cui è maestra – 21 bambini di seconda elementare. Le loro facce, i loro occhi che si alternavano nei pensieri, come grani di un altro silenzioso rosario. Sono tutti salvi. Qui in tenda, o al mare, a Pescara. «Abbiamo bisogno di spazi per ricominciare la scuola, il convento è gravemente lesionato », dice la suora. Intanto, lei e altre cinque sorelle in buona salute sono tornate, a aiutare. Tornate con l’abito che hanno addosso, coperte, biancheria, null’altro. Annamaria, ex missionaria nelle Filippine, ha i capelli grigi. E ora? domandi. Lei tace un attimo, poi, serena: «Se Dio ci toglie tutto, è perché dobbiamo ricominciare». Dietro di lei Collemaggio, la regale basilica costruita con gli ori e le armi dei caduti della battaglia di Tagliacozzo, fra gli eserciti di Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò – oro in cambio di indulgenze – è in macerie. Risorgerà. Una città, ha bisogno di un cuore.