Silvio Berlusconi - FOTOGRAMMA
C’è chi in queste ore lo ha ricordato come il leader che ha cambiato la politica focalizzando tutto sul fare e non sulle chiacchiere. E chi – come Diego Motta ieri su Avvenire – ha spiegato che in realtà Berlusconi stesso era il messaggio elettorale, senza bisogno di altro. Certo, le mirabolanti promesse, a partire dal milione di posti di lavoro, hanno segnato la parabola pubblica del fondatore di Forza Italia, ma quello che gli va senz’altro ascritto è l’approccio distruttivo-creativo al processo politico inteso nel senso più ampio. Non gli è riuscito di costruire una Seconda Repubblica dal punto di vista delle riforme istituzionali – come ha ricordato martedì Marco Tarquinio –, dove ha invece dato un’impronta decisiva è stato nello smantellare la “sacralità” di tutti i riti che accompagnavano la selezione dei rappresentanti del popolo e l’esecuzione del loro mandato.
Il messaggio della discesa in campo inoltrato via videocassetta a tutte le tv oggi appare nulla di straordinario. Nel 1994 segnava invece uno spartiacque. La personalizzazione del confronto e la nuova formazione caratterizzata dalla figura del capo, dove tutto può cambiare, se resta presente l’icona in cui i sostenitori possono identificarsi, hanno trovato spazio in uno scenario reso in macerie dal ciclone Mani Pulite.
La filosofia generale del partito-azienda è stata fin dall’inizio quella di contrapporsi agli schemi classici del professionismo politico, primo vero “nemico” di Forza Italia insieme ai “comunisti” che di quel ceto erano l’unica parte rimasta quasi intatta dopo le inchieste giudiziarie. Berlusconi rispose e si sintonizzò su un umore popolare che le sue stesse televisioni avevano alimentato. Le monetine lanciate contro l’amico Bettino Craxi davanti all’hotel Raphaël nell’aprile del 1993 furono una delle premesse su cui poté edificarsi il consenso basato sull’antipolitica, sull’ostilità verso una classe dirigente bollata collettivamente e sbrigativamente come corrotta e obsoleta. Soprattutto giudicata incapace di tenere il passo con la modernità e legata a un mondo autoreferenziale. Ci voleva un homo novus, proveniente dall’imprenditoria, scelto tra coloro che, appunto, fanno e producono; non si perdono in chiacchiere.
In primo luogo, l’idea di disintermediazione totale: non c’è più bisogno di un cursus honorum, di una competenza specifica per essere candidato a un ruolo istituzionale; basta una abilità comprovata in un altro ambito (e poi semplicemente la notorietà di qualunque tipo nella società dei media) per avere un mandato diretto, ottenuto grazie alle emozioni più che razionalmente o ideologicamente motivato. Il leader, pertanto, si costruisce nella sua immagine che travalica gli aspetti “politici” che, anzi, devono essere messi sullo sfondo. In tal modo, ed è il secondo momento di questa rivoluzione, funzionano le vittorie sportive della squadra di proprietà e le barzellette, la ricchezza esibita e i gesti che rompono il rigido protocollo avvicinando colui che ha un ruolo elevato ai cittadini diventati allergici ai formalismi.
Una tendenza che si autoalimenta secondo la regola che la moneta cattiva scaccia quella buona, gli istinti bassi scalzano i tentativi di elevarsi quando non si mantenga lo sforzo verso l’obiettivo più alto. Né d’altra parte, si tratta di un fenomeno che è accaduto nel vuoto, indotto dal solo Berlusconi, se è vero che persino il Papato ha visto una rapida transizione da un pontefice che parla al plurale e viene condotto in portantina a un pontefice che telefona direttamente ai fedeli e tiene in mano la propria borsa salendo la scaletta dell’aereo. Il Cavaliere però ha spinto sul pedale della laicizzazione distruttiva della politica con l’alone della vita privata eccessiva ad allargarsi sull’immagine pubblica, ricorrendo alla gag e allo sberleffo nei vertici internazionali, rompendo il protocollo di cui pensava di non avere più bisogno, rifiutando spesso la divisione dei poteri e degli interessi nel nome di una presunta efficacia dell’azione di governo.
Populismo ante-litteram per l’Europa. Certamente, un modello che è sembrato adatto ai tempi e ha conquistato imitatori grazie ai risultati ottenuti. Può sembrare paradossale affermare che Beppe Grillo, acerrimo oppositore di Berlusconi, che ha sempre ricambiato l’avversione per il M5s, abbia mutuato uno stile ancora più corrosivo verso il sistema liberal-democratico (di qui gli slogan sul Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno) proprio dal leader che metteva nel mirino. Eppure, il fondatore di Forza Italia ha dato un contribuito non irrilevante a mettere in moto quella slavina che ancora rotola nel mondo. Nelle stesse ore del suo funerale di Stato nel Duomo di Milano, l’ex presidente americano Donald Trump compariva in un tribunale di Miami per rispondere dell’accusa di avere trattato la cosa pubblica (documenti segreti) come proprietà privata e incitava i propri fautori a ribellarsi alle decisioni dei giudici.
Il tycoon Usa che ha studiato le mosse del magnate italiano prima di entrare in politica forse ricordava l’attacco alla magistratura “politicizzata” quale “metastasi della democrazia” lanciato nel 2008 senza che l’enormità dell’affermazione si ritorcesse contro chi l’aveva pronunciata. Avvelenare i pozzi per ottenere un vantaggio immediato non è un buon servizio alla società e alle generazioni future. Di questa colpa si sono macchiati anche molti altri in questi anni e il declino non solo dell’autorità ma pure dell’autorevolezza dei rappresentati del popolo è da imputarsi al successo di un modello che ha avuto cantori ed epigoni nel giornalismo e nella cultura e si è diffuso da destra a sinistra.
Nella rottura innescata dalla nascita di Forza Italia voluta da Silvio Berlusconi molti vedono l’affermarsi del bipolarismo e una semplificazione dei processi rappresentativi. Questa lettura positiva rischia di oscurare le conseguenze fortemente problematiche che un preciso stile politico continua a produrre.