A poco meno di un anno dall’approvazione della legge sui piccoli Comuni, la situazione dei borghi italiani non sembra migliorare. Non abbastanza, comunque, da evitare il grido d’allarme lanciato pochi giorni fa dal presidente dell’Anci, Antonio Decaro, nel corso dell’incontro promosso dall’associazione a Viverone, in provincia di Biella. «I piccoli Comuni non sono la periferia d’Italia, ma la rete connettiva di un Paese che ha nella pluralità del suo patrimonio le matrici originali della propria identità. Eppure a volte ci sentiamo soli, costretti tra un diluvio di norme e una montagna di responsabilità».
Ed è proprio la mole di adempimenti, spesso inutili per la sopravvivenza di un borgo, l’aspetto più critico nella gestione dei centri italiani con meno di 5mila abitanti. Va detto che il testo ispirato dall’ex parlamentare Ermete Realacci, dopo un iter durato quattro legislature, ha raggiunto l’approvazione a ridosso di una scadenza elettorale e il governo che avrebbe dovuto attuarlo non c’è più. Ma la tempistica, in un quadro di progressivo spopolamento, diventa fondamentale e si rischia di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. In sei anni i borghi d’Italia hanno perso 75mila abitanti e nel giro di 30 anni – avverte Massimo Castelli, coordinatore di Anci piccoli Comuni e sindaco di Cerignale, nel Piacentino – «alle spalle delle grandi città potrebbe rimanere un deserto». È vero che questa legge ha il merito di aver posto il problema nell’agenda politica nazionale ma i finanziamenti previsti (160 milioni in sette anni da dividere per i 5.544 Comuni interessati) non sono un cifra risolutiva. Senza contare che i parametri di individuazione della platea dei beneficiari sono molti, troppi secondo Castelli: «Meglio tenerli tutti dentro e poi distribuire i soldi in base alle priorità. Se c’è un borgo a rischio desertificazione, con andamento demografico in crisi, è chiaro che necessita di un intervento prioritario rispetto a Campione d’Italia che, sì, è un piccolo Comune ma tra i più ricchi del Paese ». Al di là delle molte criticità, quello che serve è un cambio di passo culturale che obblighi al riconoscimento delle specificità legate a queste realtà. Il che significa smettere di imporre una burocrazia pensata per le grandi aree urbane: «Un documento unico di programmazione di 80 pagine ha senso per Roma, non per un piccolo centro – ragiona il sindaco di Cerignale –. I nostri tecnici perdono giorni di lavoro senza potersi occupare dei cittadini».
Poi ci sono i vincoli di bilancio, anche questi applicati in maniera trasversale: «Invece di dare indicazioni specifiche su quali spese limitare, si dia un obiettivo di risparmio e si lasci ai Comuni la facoltà di decidere dove tagliare ». Lo stesso discorso vale per il turnover che impone le stesse percentuali di assunzione a un’amministrazione con 5 dipendenti e a una che ne ha 40: «Servono piante organiche basate sulla popolazione – continua Castelli –. In un piccolo Comune l’ufficio tecnico è composto da una persona sola, se va in pensione si rischia di perdere una figura professionale indispensabile».
Una situazione che tocca tutti gli ambiti che contribuirebbero a mantenere un paese popolato. Ci sono casi in cui le scuole sono state chiuse per mancanza di un iscritto. Ma se chiude una scuola, vanno via anche le famiglie. Il problema è capire che si tratta di una questione nazionale, non solo dei piccoli Comuni. Il dissesto idrogeologico, un esempio su tutti, spesso si deve a zone rurali abbandonate ma il danno prodotto, come ci ricordano i molti casi di cronaca, non si ferma certo nei luoghi in cui ha origine.