Camaldoli - Collaboratori
Il convegno organizzato dalla Cei per gli 80 anni del Codice di Camaldoli si è aperto venerdì con la presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella e la prolusione del presidente dei vescovi italiani, cardinale Matteo Zuppi. Come ha ricordato il porporato quel codice «preparò l’inchiostro con cui venne scritta la Costituzione, frutto di idealità, ma anche di capacità di confronto e consapevolezza dei valori della persona». Ma può fare da guida anche per l’oggi. L’arcivescovo di Bologna ha infatti ammonito che proprio «dal divorzio tra cultura e politica» nasce «una politica epidermica, a volte ignorante, con poche visioni e segnata da interessi modesti ma molto enfatizzati».
Ciò che decretò la «straordinaria fama» del Codice di Camaldoli fu soprattutto «l’implicita ma vistosa rottura da parte degli intellettuali cattolici con il precedente silenzio sul regime e sulla guerra». Un elemento messo a fuoco oggi da Ugo De Siervo, presidente emerito della Corte Costituzionale, in apertura del secondo giorno di lavori del convegno organizzato dalla Cei per gli 80 anni del documento. Ma dietro quell’esperienza ci fu anche la volontà di dare risposte alla vita reale del Paese e di conseguenza, come osservato ancora dal giurista, di rendere la Dottrina sociale immediatamente applicabile alla situazione storica, allontanandosi però dal linguaggio ufficiale del magistero della Chiesa.
L’ancoraggio del Codice con le precedenti formulazioni del cristianesimo sociale resta quindi un fatto innegabile, ma il testo sviluppato dagli intellettuali cristiani a Camaldoli - ha osservato Alberto Guasco dell’Istituto di Storia dell’Europa mediterranea (Cnr) - fu anche un tentativo di sorpassare una produzione figlia di un mondo che già dopo la Grande guerra aveva vissuto un profondo cambiamento. E in questo giocò un ruolo decisivo la figura di Giovanni Battista Montini (il futuro papa Paolo VI). La cifra dell’incontro di quei laici impegnati fu così il binomio fede-cultura, ha proseguito Guasco, che determinò una posizione «vicaria» e preparatoria in attesa che divenisse accessibile lo spazio della politica, in quel momento storico non ancora occupabile.
Lo stesso Montini, ha puntualizzato Angelo Maffeis, presidente dell’istituto Paolo VI e docente dell’Università cattolica del Sacro Cuore, si pose il problema 《della partecipazione della teologia alla produzione culturale》e quindi di «quale teologia proporre ai laici», in modo da conciliarla con la cultura profana.
Un tentativo che in un certo senso prese forma con la partecipazione di alcune delle personalità presenti a Camaldoli all’Assemblea costituente. Momento che decretò in un certo senso l’inizio di questo passaggio auspicato dal mondo cattolico ma, come osservato da Marta Cartabia, ex ministra della Giustizia, costituzionalista e ora all’Università Bocconi, 《«non tanto in termini di coincidenze testuali e filologiche, ma di orientamento culturale di fondo. Il Codice - ha continuato - è infatti frutto di un pensiero che si è fatto interrogare profondamente dai problemi più scottanti dell’epoca, ma allontanandosi 《sia dal corporativismo fascista che dal liberalismo».
Del contesto storico in cui vide la luce il Codice si è invece occupato nella sua relazione Alessandro Angelo Persico, anche lui docente alla Cattolica, che ne ha ripercorso la genesi e la fase di redazione (anche se la sua forma definitiva, vide la luce solo due anni più tardi rispetto al confronto nel monastero di Camaldoli nel luglio del ‘43).
Del ruolo più ampio dei cattolici in politica si è discusso anche nella sessione pomeridiana di ieri, presieduta dal presidente dell’istituto Luigi Sturzo, Nicola Antonetti, e proseguita con gli interventi del rettore dell’università Lumsa Francesco Bonini, di Marialuisa Lucia Sergio (università Roma Tre), e di Daria Gabusi (università Giustino Fortunato di Benevento). Un momento di riflessione utile a comprendere che il Codice fu sì un paradigma complesso di elementi economici, giuridici e sociali, ma non un manifesto politico, come puntualizzato da Antonetti. E soprattutto non un documento “prepolitico”, perché, ha spiegato Bonini, quell’incontro fu piuttosto l’inizio di un «processo» caratterizzato da «un’ansia di concretezza», di «azione secolare». Attorno a Camaldoli si delineò quindi un «campo culturale», ha continuato il rettore della Lumsa, in «antitesi dottrinale» con il fascismo e che produsse molti e diversi frutti. Che arrivano sino ad oggi.