Gentile direttore,
ho letto con rammarico la posizione di Gian Luigi Gigli rispetto alla mia lettera inviata a tutti i gruppi parlamentari di Camera e Senato e ai presidenti di quelle Assemblee legislative per implorare l’approvazione della legge sul fine vita. E vorrei replicargli.
«Caro Gigli, sento nelle premesse e nel tono la voglia di sporcare di polemica un grido di dolore e di dignità affinché la politica svolga il suo compito con il coraggio di scegliere. Senza ideologie ma nella consapevolezza, come afferma papa Francesco nella Evangelii gaudium, che 'la realtà è superiore all’idea' ed è alla realtà che bisogna guardare ispirati dal valore alto della dignità della persona umana nella sua integrità. Per questo ho implorato i gruppi parlamentari di approvare una legge con la quale si rispetti la volontà del malato colpito da patologia degenerativa senza speranza di guarigione e con la quale non essere torturato con interventi invasivi. Mi risponde parlando di amarezza, di strumentalizzazioni e addirittura del male che il mio appello potrebbe fare ad altri malati. Le sue considerazioni sulla Sla le conoscevo già, naturalmente, e le utilizza solo per dirmi che non vuole una legge. I diritti dei malati e le loro sofferenze reali passano in secondo piano. Sta qui la differenza. Io vorrei una legge a favore di chi soffre e che dia certezze anche ai loro cari, oltre ogni ideologia, lei, caro Gigli, probabilmente 'spera di dare una spallata a un iter legislativo messo in forse dall’imminente chiusura della legislazione' e che vada nel dimenticatoio.
Nella mia lettera pongo il caso in cui dovessi essere colpito di notte da crisi respiratoria e il 118 mi porti al pronto soccorso e magari vi giunga in stato di incoscienza: il medico di turno, per non avere noie con l’attuale legge che gli impone comunque di trattare il paziente, può non ascoltare i familiari e rispettare la mia volontà e praticarmi la tracheotomia. La sua risposta è un’opinione, non una certezza. Lo dimostra la posizione di altri medici, che da cattedre prestigiose come la sua sostengono pubblicamente che una legge chiara solleverebbe e aiuterebbe anche loro. Poi mi cita don Lorenzo e il mio essere cattolico quasi per dirmi che i cattolici non devono parlare di queste cose e che la mia lettera può far addirittura del male. Don Lorenzo è stato un sacerdote che ha scelto senza mezzi termini di stare con la Chiesa dei poveri e ha speso la sua vita per dar loro dignità religiosa e sociale attraverso la scuola. Col coraggio di parlare sempre chiaro al mondo cattolico e ai superiori della sua Chiesa fiorentina, mentre non capito è stato mandato in esilio a Barbiana per farlo tacere. Lui ha sempre ubbidito perché aveva scelto la Chiesa per i suoi sacramenti che valevano molto di più delle sue idee. Ma questo non gli ha impedito di parlare sempre chiaramente. Lo ha rivalutato papa Francesco e sono tra quelli che considero il suo papato un gran dono che Dio ha fatto alla Chiesa e all’umanità intera.
Anch’io ho cercato di camminare, per tutta la mia vita, nei binari dei grandi valori cattolici e tra questi c’è la difesa del dono della vita, quindi non mi troverà mai a sostenere o praticare l’eutanasia. Ma nei confronti di quelle creature che non sono sorrette da tali valori e fanno questa drammatica e traumatizzante scelta per accorciare la loro sofferenza dissento con doloroso silenzio perché penso che tra i comportamenti del buon cristiano ci sia quello di mettersi nei panni dell’altro.
Caro Gigli, il male purifica e fa divenire macigni ancora più pesanti le parole del Padre Nostro per la buona condizione della vita : «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori... Dacci oggi il nostro pane quotidiano... Liberaci dal male». Siamo inoltre a interrogarci continuamente per capire cosa Dio vuole da noi coi segnali che ci dà. A me ha tolto la parola e mi ha spinto a prendere la penna in mano per continuare a testimoniare ai ragazzi di oggi le scelte coraggiose di don Lorenzo raccontando la sua esperienza. E oggi trovandomi nel dolore dei malati terminali e in quello dei propri cari ho interpretato che dovessi impegnarmi a sollecitare il Parlamento ad approvare rapidamente una giusta ed equa legge sul fine vita. Una legge che conceda dignità di essere umano a me e ai tanti malati, e alle loro famiglie che vivono in solitudine il loro dramma».
Michele Gesualdi
Accompagno io, da direttore, l’appassionata lettera che lei, gentile e caro amico, mi chiede di pubblicare come replica a quella che, con le stesse modalità, le ha indirizzato il 5 novembre 2017 dalle nostre pagine il medico e deputato Gian Luigi Gigli (http://bit.ly/2iPkY49). E lo faccio prima di tutto per chiederle di rileggere bene le parole del presidente del Movimento per la Vita italiano: non è davvero possibile sostenere che con esse si sia voluto «sporcare» sia pure solo di «polemica» il suo «grido di dolore e di dignità ». Non è questo lo stile (né l’argomentare) dell’uomo e del cristiano Gigli, e non è lo stile di questo giornale che ne ha ospitato l’intervento. Sottolineo, poi, che il professor Gigli in quel testo proprio come in Parlamento non scandisce un “no” a prescindere a una (buona) legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (le cosiddette Dat), ma contesta questa ipotesi di legge, cioè l’articolato che nell’attuale legislatura è stato confezionato alla Camera e inviato al Senato. Anche io, nella sostanza, la penso come lui: se il testo non cambiasse, non avremmo una «giusta ed equa legge sul fine vita» perché non saremmo al cospetto di una legge sull’eutanasia, ma di una normativa che, così com’è, purtroppo smonta le condizioni e l’idea stessa di un’«alleanza terapeutica» tra la persona malata (e i suoi familiari) e il personale sanitario che è tenuto a operare con scienza e coscienza nell’interesse di quella stessa persona. Operare cioè senza ingiusti accanimenti. Senza imposizioni di terapie sproporzionate, inutili o dannose o semplicemente non accettate da un paziente compiutamente informato. Senza ingiustificabili o magari calcolati abbandoni. Non possiamo stancarci di batterci perché a nessuna comunità umana, certo non agli Stati, venga riconosciuto il potere di amministrare la morte, regolandola per legge e irrogandola come servizio sanitario o come pena, perseguendola come obiettivo di guerra. Che questo non accada mai oggi e domani per conto nostro, e che comunque non accada più in nome nostro.
Detto questo, sono convinto anch’io che ognuno di noi – cristiano o no – è tenuto «a mettersi nei panni dell’altro». E non ci è poi così difficile visto che il dolore, la fatica di vivere, lo scoramento toccano, poco o tanto, inesorabilmente tutti noi e, comunque, ci uncinano in persone a noi vicine, per storie familiari e d’amicizia. «Mettersi nei panni dell’altro» significa aver memoria, e praticare un autentico rispetto per ogni essere umano in qualunque situazione e condizione si trovi. Significa lottare contro il male, e contro la presunzione o la rassegnazione che sovente lo accompagnano. Significa trovare, di volta in volta, come lei mi sembra suggerire, la parola o il silenzio più giusti, o almeno provarci. Ma significa anche e soprattutto rifiutare ogni complicità con la depressione dell’umano che invoca o addirittura fomenta la repressione della vita, e per dichiarata libertà o per più o meno dissimulata sopraffazione a una simile, definitiva tragedia conduce. Questa, in un mondo dominato dal perfettismo e dai miti di successo e di felicità del mercato globale, è la realtà con cui ci misuriamo nelle periferie dell’esistenza nelle quali tutti prima o poi c’inoltreremo (e che solo la fede o una altissima filosofia, purché sostenute da mani solidali e amiche, può farci pensare senza assoluto sgomento). E questa è davvero una realtà esistenziale superiore a ogni idea che la precede. Anche all’idea di libertà, anche all’idea di progresso medico e scientifico. È persino più grande di una certa idea di amore. Lo dico inchinandomi davanti alla vertiginosa possibilità di ogni uomo e ogni donna di disporre nel bene e nel male della propria vita: non siamo predestinati, non siamo dannati per nascita e nemmeno per malattia, non siamo già salvi se non lo vogliamo... Ma non siamo mai “già morti”, mentre siamo dolorosamente o incomprensibilmente nel dolore, se non rinunciamo alla prova che è la nostra vita (o se altri non rinuncia per noi). E al tempo stesso non possiamo né dobbiamo pensarci eterni, perché non si vive a ogni costo e anch’io so che ci sono cure possibili (o prefigurate, in futuro più o meno lontano) che mai vorrei applicate su di me: il trapianto di organi comprati e venduti oppure “costruiti” con arti tragiche, magari facendo a pezzi vite umane embrionali... E poi continuo a rendermi conto che io e tanti altri non sappiamo già – ora per allora – che cosa vorremo e che cosa l’umana scienza medica potrà fare di davvero buono e onorevole per noi. Per questo a me, e parlo davvero solo di me, pare sensato che si dichiari la propria intenzione di fronte a un atto medico e che questo pesi, ma non ritengo giusto che invece si disponga, imponendo in modo assoluto (e non relazionale) a un medico, che non è un essere infallibile ma neppure un mero esecutore tecnico, di agire anche contro ciò che competenza e umanità gli consigliano.
Dico con tremore tutto questo a un uomo come lei, cresciuto alla buona scuola di don Lorenzo Milani e che affronta oggi con coraggio e fede, e il piglio di una vita intera, la durissima esperienza della Sla. Lo ripeto sottovoce a un cristiano che, con sensibilità acuita dalla sofferenza, sa dire no all’eutanasia e conosce la virtù, e l’abbraccio delicato, dell’ascolto, della solidarietà e della pietà di chi non giudica e sta accanto. Gian Luigi Gigli, mi creda, è suo fratello anche in questo. La saluto con affetto.
SUL CASO GESUALDI:
Dat, al «paradigma positivistico» si resiste con saldo «paradigma umanistico» di Francesco Ognibene (9/11)
Le dichiarazioni anticipate di trattamento non aiutano i malati di Sla di Gian Luigi Gigli (5/11)