martedì 19 dicembre 2023
Cartabellotta (Gimbe): 45 anni e sentirli tutti. Ormai ci sono 21 sistemi sanitari regionali. La protesta dei camici bianchi? L'Italia di oggi non è più un Paese per giovani medici
Nino Cartabellotta

Nino Cartabellotta - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Quarantacinque anni e sentirli tutti. È un compleanno in tono minore, per usare un eufemismo, per il nostro Servizio sanitario nazionale (Ssn) che, nato con la legge 833 del 1978, e basato sui principi dell’universalità, dell'uguaglianza e dell'equità, resta pur sempre un esempio, con non pochi tentativi di imitazioni, più o meno sbiadite. Ma oggi quel fiore all’occhiello del nostro Paese è un malato acuto, che poggia su basi economiche traballanti, che non è più il sogno di approdo dei giovani medici e che ha paura di guardare al futuro. «Che cosa ci si poteva aspettare dopo almeno 15 anni di tagli e definanziamento se non un progressivo e inesorabile indebolimento nella sua componente strutturale, tecnologica e, soprattutto, professionale?», taglia corto Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, la fondazione che di Ssn ne sa qualcosa, visto che ne studia, da anni, sostenibilità, tenuta e qualità.
Presidente, medici e infermieri sono merce rara, molti corsi di specializzazione vanno deserti, le liste di attesa sono diventate infinite in quasi tutte le regioni, e nei Pronto soccorso intasati si possono trascorrere intere giornate prima di un ricovero o delle dimissioni. Non è proprio un anniversario felice…
Ecco perché la mia prima riflessione riguarda l’aspetto economico. Dal 2010 il gap della spesa sanitaria pubblica pro-capite italiana, rispetto alla media dei Paesi europei, è progressivamente aumentato: nel 2022 è arrivato a 873 dollari. Complessivamente, significa quasi 48 miliardi di euro. Se consideriamo il periodo 2010-2022, in cui si sono succeduti governi di tutti i colori, il gap complessivo arriva alla cifra monstre di 336 miliardi.
Eppure, la premier Meloni ha appena ripetuto che la sanità italiana non ha mai avuto tante risorse come quelle appena stanziate dal suo esecutivo. Saranno sufficienti per risollevarci?
Il fondo sanitario nazionale di anno in anno è sempre aumentato e aumenterà sempre in termini assoluti: per questo, ogni Governo in carica potrà affermare di aver messo più risorse di quelli precedenti. Nel 2024 la legge di Bilancio aggiunge una cifra importante, ben 3 miliardi, ma 2,4 saranno destinati all’improcrastinabile rinnovo dei contratti per il personale sanitario. E, soprattutto, per gli anni successivi dalla Manovra non emerge alcun rilancio progressivo del finanziamento. Perfettamente in linea con la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza di settembre, dove il rapporto spesa sanitaria/Pil precipita dal 6,6% del 2023 al 6,1% del 2026.
Ma allora possiamo ancora permetterci un Ssn universale? Meglio, uno per ogni regione?
Solo se saremo in grado di invertire la rotta attraverso un patto politico e sociale – fortemente invocato dalla Fondazione Gimbe – che, prescindendo da ideologie partitiche e avvicendamenti di governi, riconosca in quel modello di Ssn un pilastro della nostra democrazia, una conquista irrinunciabile e una grande leva per lo sviluppo economico del Paese. Altrimenti, con la semplice “manutenzione ordinaria”, il Servizio sanitario nazionale fondato per tutelare un diritto costituzionale, scivolerà inesorabilmente verso 21 sistemi sanitari regionali basati sulle regole del libero mercato.
C’è poi il tema della qualità dei servizi: non si può certo affermare che siano gli stessi da regione a regione… Non si spiegherebbe altrimenti la migrazione sanitaria che, così come 45 anni fa, resta molto sostenuta.
Proprio così. Nel 2021 il valore della mobilità sanitaria ammonta a 4,2 miliardi: cifra inferiore agli ultimi anni precedenti la pandemia, ma in netta risalita rispetto al 2020. E le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni sono tutte al Nord, mentre quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni tutte al Centro-Sud. Questo fiume di denaro che scorre verso le Regioni settentrionali consegue a una vera e propria “frattura strutturale” tra Nord e Sud, che rischia di essere legittimata normativamente dall’autonomia differenziata. Infatti, nel 2021, solo 3 su 14 Regioni adempienti ai Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono del Centro-Sud: Abruzzo, Puglia e Basilicata, rispettivamente al 12°, 13° e 14° posto. E tutte le Regioni meridionali, Basilicata a parte, sono in Piano di rientro, con Calabria e Molise addirittura commissariate.
Con un’Italia sempre più vecchia che soffre di malattie cronicizzate, l’assistenza domiciliare integrata (Adi), il cui sviluppo è supportato dai fondi del Pnrr, può darci una mano nel contenere le ospedalizzazioni?
Più in generale è tutta la riorganizzazione dell’assistenza territoriale, prevista dal Pnrr e dal Dm 77 (il decreto del ministero della Salute che definisce i modelli e gli standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Ssn, ndr) che dovrebbe permettere di assistere il paziente “nel posto giusto”, tra cui il proprio domicilio: case di comunità, ospedali di comunità, centrali operative territoriali, oltre ovviamente all’Adi. Ma al di là delle risorse del Pnrr e del Dm 77 servono coraggiose riforme per attuare questa rivoluzione organizzativa, in primis occorre definire le modalità di coinvolgimento del medico di medicina generale, il cui rapporto di convenzione – insieme alle resistenze dei sindacati – sembra incompatibile con questa riforma. Riforma che peraltro assegna un ruolo cruciale all’infermiere di famiglia, in un momento storico caratterizzato dalla drammatica carenza di personale infermieristico.
Il privato accreditato è un problema o una soluzione per il Ssn?
Pur riconoscendo la qualità di numerose strutture private accreditate, devo ammettere che la loro espansione, se incontrollata - soprattutto in un contesto di indebolimento del Ssn -, diventa un problema. Perché di fatto, gradualmente, finiscono per sostituirsi al pubblico. E il problema diventa una minaccia quando gli istituti privati vengono acquisiti dalle assicurazioni, creando un sistema parallelo interamente privato, sia nel finanziamento sia nell’erogazione delle prestazioni sanitarie. Un sistema in grado di sostituirsi interamente al pubblico, ma con regole basate sul libero mercato, e non sulla tutela di un diritto costituzionale.
Molti medici italiani vanno all’estero perché le retribuzioni sono di gran lunga superiori, mentre nel campo della ricerca, che è strategico, l’Italia è agli ultimi posti degli investimenti pubblici. Cosa dobbiamo fare per tornare ad essere un Paese attrattivo?
Stanziare risorse, quelle sì anche in deficit, per investire sui giovani, sulla sanità e sulla ricerca. Tutto il resto è “debito cattivo” finalizzato a soddisfare promesse elettorali fatte ad una popolazione sempre più vecchia. L’Italia di oggi non è certo un Paese per giovani, tantomeno per giovani ricercatori.
La sanità digitale può aiutarci?
Assolutamente sì! Ma non si può pensare alla trasformazione digitale come a una panacea per migliorare efficienza dei servizi sanitari e accessibilità da parte dei cittadini: senza adeguati investimenti per l’alfabetizzazione digitale, oltre che per le infrastrutture e i modelli organizzativi, si rischia il flop oltre all’aumento delle diseguaglianze. Senza contare che oggi, a parte la tele-neuroriabilitazione, nessuna prestazione di telemedicina è inclusa nei Lea, ovvero rimborsata con denaro pubblico. Di conseguenza, perché una Regione dovrebbe erogare prestazioni in telemedicina se deve pagarle con fondi propri? Inoltre, il fascicolo sanitario elettronico, strumento fondamentale della trasformazione digitale, è soggetto alla privacy: ovvero se il cittadino non fornisce il consenso, la Asl di residenza non può attivarlo.
La privacy, dice?
Funziona così. Si fidi.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: