ImagoEconomica
Il governo vuole allargare la cedolare secca anche agli affitti di negozi e botteghe. Maurizio Leo, viceministro dell’Economia, lo ha promesso lo scorso mercoledì alla presentazione dei risultati di uno studio sui bonus edilizi. «Non vedo perché se io do in affitto l’unità immobiliare (residenziale, ndr) posso applicare la cedolare al 21% o 10%, se invece vado a dare in locazione un immobile commerciale devo pagare l’aliquota progressiva». Per il viceministro un allineamento è «assolutamente necessario».
Si vedrà se la misura, già sperimentata per un solo anno nel 2019, troverà spazio nella prossima legge di Bilancio. Confedilizia, l’associazione dei proprietari di immobili, naturalmente ci spera. L’idea non dispiace anche alle associazioni dei negozianti Confesercenti e Confcommercio, che però chiedono esplicitamente di subordinare l’accesso alla cedolare secca alla concessione di un canone concordato.
A undici anni dall’introduzione dell’imposta fissa alternativa all’Irpef sui redditi da locazione è ormai acclarato che la cedolare così com’è oggi avvantaggia solo i proprietari di immobili e in particolare quelli molto ricchi
È una richiesta giusta perché, a undici anni dall’introduzione dell’imposta fissa alternativa all’Irpef sui redditi da locazione è ormai acclarato che la cedolare così com’è oggi avvantaggia solo i proprietari di immobili e in particolare quelli molto ricchi. Lo mostravano già cinque anni fa le prime analisi del Tesoro e dell’Agenzia delle Entrate. Lo conferma lo stesso ministero dell’Economia nella Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva che accompagna la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, pubblicata pochi giorni fa.
Gli obiettivi della cedolare, ricorda il Tesoro, erano tre: ridurre l’evasione sui redditi da locazione, incentivare l’affitto di immobili non utilizzati, calmierare il prezzo delle locazioni. Il Dipartimento delle finanze tra il 2021 e il 2022 ha studiato ciò che è successo in collaborazione con le università di Catania, dell’Insubria e la Statale di Milano.
Lo studio è stato condotto su un campione casuale di 80mila contribuenti sull’arco di sette anni. L’analisi è arrivata a tre conclusioni generali sugli effetti della cedolare secca: gli immobili sul mercato regolare sono aumentati del 3,8%; la base imponibile del reddito da immobili è cresciuta del 6,6%; non c’è stato nessun significativo effetto di riduzione del prezzo degli affitti.
Per le casse pubbliche il bilancio della cedolare secca è stato negativo, perché l’emersione degli affitti in nero non ha bilanciato lo sconto fiscale concesso ai proprietari: gli studiosi stimano in circa 1,1 miliardi di euro la perdita di gettito per l’anno al centro dell’indagine, il 2015 (è circa il 10% delle entrate fiscale dai redditi da locazione).
L’analisi conferma anche un altro dato: la cedolare secca è una tassazione molto sbilanciata a favore di chi ha redditi molto elevati. Il 20% del vantaggio economico rispetto all’Irpef è andato all’1% più ricco dei contribuenti che hanno scelto la cedolare. Il 10% più ricco ha “preso” il 60% dello sconto fiscale.
Senza cedolare secca, scrivono i ricercatori, «in media l’1% più ricco dei contribuenti proprietari di immobili pagherebbe quasi 1.200 euro in più in termini di imposte, il successivo 9% dei contribuenti (tra il 90° e il 99° percentile) pagherebbe circa 350 euro in più, mentre per il resto della popolazione, in media, l’onere fiscale aumenterebbe solo di qualche euro».
Non si capisce perché, in tempi difficili per la contabilità pubblica, si dovrebbe fare un altro sconto ai contribuenti più ricchi, premiando nello specifico quelli che affittano immobili commerciali. Hanno ragione i negozianti: la cedolare secca può portare vantaggi solo se collegata a uno sconto verificabile sugli affitti. Altrimenti meglio usare le poche risorse a disposizione per aiutare i negozi con altre soluzioni, a partire dagli aiuti sulle spese per l’energia.