La solitudine. La mancanza di una famiglia strutturata in grado di prestare ascolto e supporto. E poi il difetto di comunicazione con una società che troppo spesso dimentica di dare informazioni, e su cui – soprattutto chi è straniero – non ripone fiducia. Alle origini degli infanticidi avvenute nelle ultime ore ci sono ragioni comuni, come spiega la psicologa dell’età evolutiva Anna Oliverio Ferraris, docente alla Sapienza di Roma.
Professoressa, perché una madre arriva a uccidere il proprio bambino?Nei due casi di Pistoia e di Como, per disperazione, direi. Entrambe le donne – immigrate – avevano vissuto la gravidanza fin dai primi mesi come una minaccia per la propria condizione sociale, ottenuta a costo di tanti sacrifici e probabilmente ancora vissuta come precaria. Si sentivano senza via d’uscita.
Il lavoro, o il permesso di soggiorno, valgono più di un figlio? Il timore di perderli può competere con il sentimento della maternità?Sì, anche perché questo sentimento probabilmente non si è mai sviluppato nelle due donne. Entrambe avevano cercato di abortire i loro figli, entrambe li avevano vissuti fin dall’inizio della gravidanza come corpi estranei che le avevano "invase", e di cui liberarsi, non come futuri bambini.
In questo pesa anche la solitudine?Certamente. La presenza di una famiglia strutturata, di compagni su cui contare, sono essenziali per una donna nel momento delicatissimo del parto. È la fase in cui la madre è più fragile, più esposta, più bisognosa di conferme. E poi, va detto, qui c’è anche un enorme problema di informazione...
Cosa intende?Che da un lato queste donne non sanno di poter dare in adozione i propri figli, in anonimato. E dall’altro non viene loro fornita alcuna informazione, o aiuto. C’è una solitudine dettata da una lacuna "comunicativa" che lascia sgomenti in questi infanticidi. E che va colmata dalle istituzioni, al più presto.