sabato 16 febbraio 2019
L'ex ministro: dedicherei a questo i nove miliardi del Reddito di cittadinanza. «L'Italia non crescerà perché invecchia»
Pier Carlo Padoan (Foto archivio Ansa)

Pier Carlo Padoan (Foto archivio Ansa)

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Per come la vede Pier Carlo Padoan, il sentiero si sta facendo ancora più stretto: da un lato la montagna di un debito pubblico che impone, ogni anno, di emettere titoli per oltre 400 miliardi. Dall’altro i problemi strutturali che frenano la nostra economia e soprattutto la produttività, stagnante da oltre un ventennio, relegandoci all’ultimo posto per tasso di crescita fra i Paesi dell’Eurozona. E se non si cresce, non si riduce il debito.

Un circolo vizioso che ne "Il sentiero stretto e oltre" (Il Mulino), conversazione con il giornalista del Sole 24 Ore Dino Pesole, l’ex ministro dell’Economia – già capo economista dell’Ocse e direttore esecutivo italiano del Fmi – analizza a partire da un bilancio dei 4 anni passati alla scrivania di Quintino Sella. «Il nostro Paese – sostiene Padoan – ha comunque le energie e le potenzialità per superare l’attuale fase recessiva».

Partiamo da dove il suo sentiero alla guida del ministero dell’Economia si è interrotto. L’attuale esecutivo, certificata dall’Istat la recessione tecnica, dice che è colpa vostra, perché avete lasciato i conti in disordine e l’economia in stagnazione.
Nel 2017 il Pil è cresciuto dell’1,6%, l’avanzo primario (indicatore fondamentale per la sostenibilità della finanza pubblica, ndr) si è attestato all’1,4%. Non solo: il deficit si è ridotto al 2,4% del Pil ed è sceso all’1,9 al netto degli interventi diretti a sostegno del sistema bancario. Questo ha fatto sì che il debito pubblico potesse scendere al 131,2% del Pil rispetto al 131,4 del 2016.

Restano sempre 2.300 miliardi di "stock". Una montagna, appunto. Che con lo spread a questi livelli ci costa 70 miliardi di interessi all’anno.
Il problema non è tanto il debito in sé o un deficit al 2,4 o al 2%: è la direzione della finanza pubblica che permette nel medio-lungo periodo di ridurre il rapporto tra debito e Pil tenendo da un lato i conti in ordine e dall’altro provando a favorire la crescita. Un sentiero stretto, appunto. Ma non ce n’è altro.

L’ultima manovra lo percorre?
Lo scontro con l’Europa, fino alla clamorosa retromarcia sul deficit, ha determinato l’aumento del differenziale Btp-Bund e isolato l’Italia nell’Unione. Ora il rapporto debito Pil è appeso alla crescita, peggiorata anche per effetto della perdita di fiducia provocata nello scontro con la Commissione e i mercati sulla legge di Bilancio. Purtroppo il debito ricomincerà a salire. Abbiamo perso l’opportunità di proseguire sulla strada della riduzione.

Quanta flessibilità ha concesso Bruxelles nei 4 anni in cui lei ha guidato il Mef?
Circa 30 miliardi. Anche grazie alle riforme messe in campo, a partire da quella del Lavoro. Quel che più mi preoccupa, è proprio lo smantellamento a fini elettorali delle riforme attuate negli ultimi anni.

Non è proprio austerità.
Ho ricevuto critiche da destra e da sinistra. Da destra hanno sostenuto che il debito non è stato ridotto. Falso. Da sinistra che in realtà c’è stata troppa austerità. Ma i numeri, a partire dall’avanzo strutturale, dimostrano che non c’è stata austerità e che dall’Europa abbiamo ottenuto, con un faticoso lavoro diplomatico, il massimo di flessibilità possibile. Per questo confermo che la strada era – e resta – quella giusta.

Cosa chiedere di più all’Europa?
Negli ultimi anni l’Europa si è occupata molto di finanza, di banche e politiche di bilancio. Bisogna cambiare e occuparsi di lavoro, nuove tecnologie e produzione di conoscenza. A partire magari dalla proposta italiana di un’assicurazione contro la disoccupazione per l’Eurozona. O da un meccanismo di alternanza scuola-lavoro a livello europeo.

Guardiamo all’altro crinale: la nostra crescita che, anche quando c’è, è comunque flebile.
All’Italia serve un’agenda per la crescita, in cui vi sia una componente strutturale, che in termini macroeconomici deve poter incidere sulla dinamica invertendo la tendenza negativa sull’andamento della produttività, problema che ci portiamo dietro dagli anni Novanta, ben prima dell’euro, dunque, e che veniva compensato con le svalutazioni competitive. Bisogna agire sul lato della domanda, quindi, ma soprattutto su quello dell’offerta, per far crescere il Pil potenziale.

Non avete stimolato abbastanza gli investimenti, la cui caduta è stata appena definita dal governatore di Bankitala Ignazio Visco "gravissima"?
Faccio autocritica: si poteva fare di più per quel che riguarda gli investimenti pubblici. Per quelli privati abbiamo operato con la riduzione della pressione fiscale e la semplificazione, ma quel percorso, ancora una volta, è stato interrotto. L’arresto nella seconda metà del 2018, complice il peggioramento della fiducia delle imprese, è pericoloso e potrebbe portare a una recessione prolungata nel tempo.

Come evitarlo?
Insistendo sulla riduzione della pressione fiscale che, invece, con la manovra aumenta. Andrebbero poi recuperati i tagli ad Ace, Ecobonus ed Iri. Servono investimenti calibrati per la seconda potenza manifatturiera d’Europa. E cancellata totalmente l’Irap, accanto all’abolizione dell’imposta di registro per rilanciare il settore immobiliare.

Non dedicherebbe oggi, a conti fatti, i 9 miliardi del "bonus 80 euro" che agivano sul lato della domanda, per stimolarla, proprio a questi interventi sul lato dell’offerta e cioè delle imprese e del lavoro?
Mi viene chiesto spesso: lo rifarei. Perché uscivamo da una crisi molto acuta, quella che Visco nel suo "Anni difficili" ha definito più profonda e devastante addirittura della "Grande crisi", quella fra le due Guerre. Bisognava dare un sollievo immediato, seppure in ritardo, alle famiglie italiane. Poi abbiamo anche tagliato le tasse alle imprese e riformato il mercato del lavoro.

A proposito dei problemi di inclusione, il Reddito di cittadinanza incorporerà di fatto il Rei. Giusto mettere lì 9 miliardi?
La vera arma contro la disuguaglianza è il lavoro, non i sussidi. Per aiutare le famiglie e le imprese, oltre al Rei, lo strumento più appropriato, i 9 miliardi li destinerei a un assegno universale per i figli, cui avrebbero diritto anche i lavoratori autonomi e gli incapienti. L’Italia ha un enorme problema demografico: è un Paese che invecchia e anche per questo non può crescere. Sarebbe uno strumento inclusivo che ridarebbe fiducia a imprese e famiglie.

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