lunedì 23 agosto 2010
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Anzitutto occorre «preoccuparsi della validità tecnica dei test. Ma la interpretazione è spesso molto difficile, anche per gli stessi medici; se consegnati direttamente al pubblico possono generare grandi rischi». Giovanni Neri, direttore dell’Istituto di Genetica medica dell’Università Cattolica di Roma, pone l’accento anche su un altro aspetto della disponibilità di test genetici direttamente al consumatore: «Bisogna interrogarsi e cercare di intervenire sul lato della domanda: senza un minimo di motivazione a eseguire un test diagnostico o predittivo, si rischia anche di aumentare la quantità di prestazioni sanitarie improprie». Negli Stati Uniti si sta discutendo della regolamentazione dei test genetici venduti direttamente al pubblico, dopo che un’indagine ha rivelato risultati contraddittori tra le aziende sugli stessi campioni. Che cosa ne pensa? Il genetista Francis Collins fece un esperimento analogo con quattro società, ottenendo risultati abbastanza consonanti. Un problema può essere anche il proliferare di queste aziende, ma se si vogliono regolamentare i test predittivi in modo puntiglioso, perché siano ineccepibili, credo che non si raggiungerà mai il traguardo in modo soddisfacente. Questo perché proprio i test per le malattie che più interessano al pubblico – infarto, ipertensione, diabete, tumori – non sono interpretabili in modo univoco e diretto. Si tratta infatti di malattie multifattoriali, vale a dire basate su molteplici varianti genetiche (oltre che su componenti ambientali) che prese da sole non significano niente, ma che insieme diventano indicatori di rischio. La valutazione di questi indicatori è un compito molto difficile, anche per gli stessi genetisti. Qual è allora la validità di questi test? Bisogna distinguere. Ci sono test diagnostici e test predittivi di un rischio, alcuni validati e altri no. Se sono validati dalla comunità scientifica hanno un peso ben diverso: per esempio, la presenza di una certa alterazione nel gene Brca1 e Brca2 indica un aumento del rischio di sviluppare un tumore al seno dal 6% (della popolazione generale) al 60%. Quello che si può richiedere è che i test siano eseguiti correttamente e validati, ma l’interpretazione non può essere lasciata al singolo cittadino. Un po’ come accade con la diagnostica per immagini: una macchina per la risonanza magnetica deve rispondere a caratteristiche tecniche certificate, e i risultati dell’esame vengono accompagnati dal responso di un medico radiologo. In questo caso, i test andrebbero valutati da genetisti clinici, che possano mettere in relazione i risultati con le condizioni del paziente. Consegnando i risultati al pubblico si possono generare comportamenti irrazionali? Certamente. Osservo che non si parla mai di regolamentare la domanda, un aspetto da non sottovalutare. Dovrebbe esserci invece un minimo di motivazione a eseguire un test predittivo: nessuno di noi fa direttamente una risonanza magnetica se ha un semplice mal di testa. Viceversa sta crescendo l’abitudine a fare esami a tappeto, con risultati difficili da interpretare e la conseguenza di generare paure e incrementare le prestazioni sanitarie non necessarie. Qualcosa di simile accade nella diagnostica prenatale, dove non tutti i test sono utili o danno un responso univoco. Cosa significa comunicare correttamente un rischio? La percezione del rischio è un tema estremamente difficile: per la gente, in genere, un rischio aumentato si trasforma in certezza. È una valutazione molto soggettiva, che dipende in gran parte dal vissuto di ciascuno.
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