La Guardia Costiera libica ha aperto un'inchiesta interna dopo che una motovedetta ha sparato alcuni colpi verso un barcone carico di migranti e rischiato più volte lo speronamento. In una nota insolita nota la Marina libica afferma che dopo aver esaminato le immagini in cui si vede la motovedetta della Guardia Costiera che insegue un barcone carico di migranti "mettendo in pericolo le loro vite, così come quelle dei membri dell'equipaggio della motovedetta stessa, in quanto non sono state seguite le misure di sicurezza e sono stati utilizzati anche dei colpi di avvertimento", è stata aperta l'indagine.
Fino ad ora l’unica inchiesta su un esponente delle autorità accusato di traffico di esseri umani, maltrattamenti e contrabbando di petrolio si era chiusa con la scarcerazione dell’indagato, il comandante Bija, promosso pochi giorni prima del rilascio al grado di maggiore della Marina.
"Abbiamo visto il video e stiamo verificando le circostanze ad esso legate. Sicuramente chiederemo spiegazioni ai nostri partner libici", ha detto Peter Stano, portavoce della Commissione europea, nel corso della conferenza stampa quotidiana.
La notizia dell’indagine interna arriva a pochi giorni dal voto italiano per il rifinanziamento delle missioni in Libia, che prevede il sostegno diretto ai guardacoste con la permanenza a Tripoli di una nave officina della Marina militare italiana incaricata di svolgere, a spese dell’Italia, la manutenzione delle motovedette libiche donate dal nostro Paese. Dal 2017 il costo sostenuto dai contribuenti italiani a sostegno dell’accordo Italia-Libia per bloccare i flussi migratori è stato di oltre 213 milioni di euro, sui circa 800 milioni stanziati per interventi nel Paese. Soldi usati anche per addestrare ed equipaggiare i guardacoste, che però in mare agiscono più secondo gli standard dei pirati somali, che secondo quelli delle guardie costiere europee. A confermare l’insensatezza delle manovre sono anche diversi ammiragli italiani, tra cui Vittorio Alessandro, che fra l’altro era stato a capo della comunicazione della Guardia costiera. «Se qualcuno, seppure in pericolo, non vuole essere soccorso, i guardacoste – spiega Alessandro – hanno l’obbligo di stargli accanto e, casomai, cedere il controllo dell’operazione a chi è titolato in quel tratto di mare, cioè Malta. In nessun caso sono permesse manovre come quelle».
I guardacoste libici si sono allontanati per oltre 110 miglia dal porto di Tripoli e sono arrivati a sole 45 miglia da Lampedusa. Non era mai successo che una motovedetta tripolina si spingesse così a Nord per inseguire dei migranti, lasciando però che altri barconi raggiungessero indisturbati a Lampedusa. Un allontanamento dalla costa costato almeno 8 ore di navigazione fino a quasi l'area di ricerca e soccorso italiana. Era stato proprio il nostro Paese nel 2017 a confezionare la Sar libica.
Non è la prima volta che le violazioni delle più basilari norme della navigazione e del soccorso vengono platealmente violate da Tripoli. Ma stavolta l’imbarazzo per le conseguenze anche politiche di una tale azione, che mette in oggettiva difficoltà anche il governo italiano, che ha promesso la prosecuzione del sostegno politico ed economico a Tripoli, ha costretto le autorità libiche a intervenire con una nota. "Tale azione - aggiunge la Marina libica - mostra la mancanza di un giusto comportamento se si rivelasse così dopo le verifiche. La Guardia Costiera condanna qualsiasi comportamento in contrasto con le leggi locali e internazionali e conferma che tutte le misure legali saranno prese contro qualsiasi violazione, in conformità con la legislazione e le leggi in vigore". Infine, conclude lo Stato Maggiore della Marina, "confermiamo la nostra volontà nel proseguire lo svolgimento dei nostri compiti e doveri, salvare vite in mare e proteggere le coste libiche, secondo le leggi e i regolamenti umanitari riconosciuti a livello locale e internazionale". Un’affermazione, quest’ultima, che si scontra con la realtà giuridica libica. Il Paese, infatti, non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra per i Diritti dell’Uomo e, come ha ricordato di nuovo ieri l’Onu, il Paese non è riconosciuto come “luogo sicuro di sbarco” e perciò riportare a terra i migranti, destinati ai campi di prigionia, costituisce una violazione dei Diritti Umani che però in Libia non è perseguibile.