Cinque anni in "stato vegetativo", poi all’improvviso la capacità di eseguire un ordine complesso quale «prendi il bicchiere, portalo alla bocca e poi restituiscilo nelle mani del medico». C’è un video, oggi, a mostrare quanto è avvenuto due anni e mezzo fa durante un esperimento condotto in collaborazione tra l’Irccs Fondazione Ospedale San Camillo di Venezia, l’Università di Padova e quella di Verona, ma il video non trasmette le emozioni: «Anche un professionista come il sottoscritto è rimasto a bocca aperta», testimonia allora il professor Leontino Battistin, direttore scientifico dell’Irccs veneziano e della Clinica neurologica padovana, con alle spalle tre lustri nella rianimazione di Padova, ovvero «migliaia di stati vegetativi passati per le mie mani».
Eppure anche lei, che ha avviato l’esperimento, è rimasto senza parole.Era un paziente di 70 anni, in quello stato da 5 a causa di una grave emorragia cerebrale. Poche speranze di successo, insomma.
Era in stato vegetativo?Questo è un termine che alla comunità scientifica piace sempre meno. Ormai preferiamo definirli tutti "stati di minima coscienza", perché anche nei cosiddetti ultragravi o persistenti la percezione del dolore c’è sempre, con una partecipazione emozionale al dolore stesso. Anche se poi è vero che all’esterno non collaborano, perché manca il collegamento tra corteccia cerebrale e talamo.
Nel caso di questo paziente, allora, cos’è successo?In letteratura esisteva un tentativo di "risveglio" che in Inghilterra aveva dato qualche risultato grazie all’impianto chirurgico di elettrodi nel talamo. A noi venne l’idea di riprovarci con una tecnica non invasiva, ossia semplicemente stimolando il cervello da fuori, appoggiando gli elettrodi sulla testa del paziente. Questi creano un campo magnetico, che si trasforma in campo elettrico. Dopo 10 minuti di trattamento gli abbiamo impartito l’ordine e lui, sotto i nostri occhi e quelli dei familiari, ha obbedito. Poi per sei ore lo ha rifatto ogni volta che gliel’abbiamo chiesto. Non solo, nel corso di quelle sei ore l’intera attività elettrica (e ricordo che il cervello "parla" con l’attività elettrica) è notevolmente aumentata: di solito in pazienti di quel genere l’elettroencefalogramma è molto debole, invece in lui si è "riattivato", colorando di rosso tutte le aree della corteccia che prima apparivano verdi. Trascorse sei ore, l’effetto è passato e il paziente è tornato come prima. Dopo una settimana abbiamo ripetuto l’esperimento e il risultato è stato identico. Nella letteratura mondiale non esisteva nulla del genere, era la prima volta: la comunità scientifica ci ha fatto le pulci, ma poi il nostro studio è uscito su "Neurorehabilitation and Neural Repair", organo ufficiale della Federazione mondiale di Neuroriabilitazione, un fatto di enorme rilievo perché è rarissimo che si pubblichi un caso quando è ancora singolo.
Non lo sarà a lungo, si spera.Stiamo procedendo su altri trenta casi, ma siamo ancora in corso d’opera e non ci sbilanciamo fino alla fine, ma siamo fiduciosi: se un uomo di 70 anni e con una gravissima emorragia cerebrale ha risposto così, pazienti di 30 anni e colpiti da patologie traumatiche anziché emorragiche - ad esempio vittime del classico incidente d’auto - dovrebbero dare risposte ancora più positive.
C’è speranza di trarne una terapia per i "risvegli"?La neuroriabilitazione è una scienza giovane, fino a 15 anni fa era un settore negletto e questi pazienti erano considerati "persi". Oggi si è capito che un recupero della coscienza, almeno parziale, è possibile, e il campo delle stimolazioni elettriche è sempre più studiato. Arrivare a una terapia risolutiva è difficile, ma i passi avanti sono notevoli e altri ce ne saranno, perché il cervello è ancora un grande mistero. Molti dei successi sono dovuti proprio a neuroscienziati italiani, specie da quando Rita Levi Montalcini ha dimostrato che le cellule cerebrali si possono rigenerare e con questo ha dato una spinta nuova alla ricerca.
Che cosa pensa della legge sulle Dat, a questo punto?Per 15 anni sono stato chiamato d’urgenza dai rianimatori che mi chiedevano se "staccare" la spina, e spesso in serenità con i familiari ho preso decisioni contro l’accanimento terapeutico, dovendo dire «fermiamoci qui». Detto questo, la mia "mission" di medico mi fa da sempre difendere la vita, e decenni di esperienza mi dicono che il "triangolo" paziente, medico, famiglia è il fondamento necessario e sufficiente per non cadere né nell’abbandono né nell’accanimento terapeutico. Insomma, non sarebbe necessaria una legge, se l’Italia non fosse il Paese delle aberrazioni, dove dei magistrati possono dire che alimentazione e idratazione sono farmaci e sentenziare per la morte di un disabile.