martedì 10 maggio 2011
La denuncia di don Zerai: in 72 erano partiti dalla Libia. L’Alleanza: nessuna omissione. Italia e Ue: serve un’inchiesta. Il barcone salpato il 25 marzo da Medina, si era perso nel Mediterraneo. Alla deriva per quindici giorni, ha ricevuto viveri dal velivolo che poi si è allontanato ed è stato ignorato da una nave da guerra. I migranti sono così morti a poco a poco. Ritornati alla base, i superstiti sono stati arrestati.
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Unn’altra tragedia della disperazione si è consumata nel Mediterraneo tra l’indifferenza dell’Occidente. A rompere il muro di silenzio è stato il britannico Guardian, che ieri ha raccontato la drammatica traversata del Canale di Sicilia, tentata tra fine marzo e inizio aprile da 72 migranti nord africani (47 etiopi, 7 nigeriani e altrettanti eritrei, 6 ghanesi e 5 sudanesi), di cui 61 sono morti in mare di fame e di sete. A bordo c’erano anche venti donne e due bimbi piccoli, uno dei quali di un anno appena.Sempre ieri la portavoce dell’Unhcr, Laura Boldrini, ha parlato di oltre 800 morti in mare mentre cercavano di raggiungere l’Italia. I migranti sarebbero affondati a bordo di tre navi, la cui presenza nel Mediterranneo non è però stata confermata dalla Guardia costiera.La ricostruzione del Guardian è avvalorata, invece, da don Mussie Zerai, sacerdote eritreo residente a Roma, che ha ricevuto sul suo telefono cellulare l’Sos dei naufraghi. Il numero di don Mussie è conosciuto da molti immigrati, che il sacerdote assiste da anni. Il prete, animatore dell’agenzia Habeshia per la cooperazione allo sviluppo, lancia anche pesanti accuse alle istituzioni internazionali deputate al controllo e alla sicurezza del Mediterraneo, (in particolare alla Nato), che pur avendo intercettato il barcone non hanno soccorso i migranti alla deriva.«Il gommone con i 72 a bordo – ricostruisce don Zerai – era partito il 25 marzo da Medina, alla periferia di Tripoli, in Libia. Dopo appena 18 ore di viaggio è finito il carburante e i naufraghi mi hanno contattato con il telefono satellitare, senza però riuscire a dirmi dove si trovavano. Immediatamente, ho lanciato l’allarme alla Guardia costiera italiana che, come sempre avviene in questi casi, ha inoltrato l’Sos a tutte le autorità competenti».Soltanto dopo la conclusione della vicenda, si saprà che, in quel momento, il barcone si trovava a 60 miglia dalla Libia, in acque internazionali. «Qualcuno avrebbe dovuto intervenire – insiste don Zerai – anche perché i naufraghi si trovavano molto vicini alle acque di competenza maltese».In effetti, qualcuno li avvista ma fa poco o nulla per soccorrerli. Secondo la testimonianza di un etiope di 24 anni, raccolta dalla Radio Svizzera, dopo tre giorni vengono avvicinati da un elicottero militare che li fotografa, lancia bottigliette d’acqua e pacchi di biscotti e se ne va. «I migranti non sono riusciti a capire di che nazionalità fosse – dice don Zerai – ma raccontano che sulla fiancata aveva la scritta “Army”. Quindi, o era della Nato o era maltese».Due giorni più tardi, racconta sempre il giovane etiope, incrociano «una grande nave con a bordo aerei da guerra». È chiaramente la descrizione di una portaerei (secondo il Guardian potrebbe essere la francese Charles De Gaulle) che, anche per le evidenti segnalazioni dei naufraghi, non è possibile non abbia visto il barcone. Resta il fatto che tira dritto senza soccorrere i naufraghi. Che intanto cominciano a morire.Per primi se ne vanno due bambini e due donne, i cui cadaveri sono sepolti in mare. È uno stillicidio. Ogni giorno muore qualcuno. Resistono in undici (due donne e nove uomini) che il vento risospinge sulla spiaggia di Zelatien, a poca distanza da Misurata, dove arrivano il 5 aprile. I militari di Gheddafi li sbattono subito in carcere. Dopo un’ora muore una ragazza e due giorni dopo è la volta di un giovane. I nove superstiti restano per altri tre giorni in cella, poi sono trasferiti a Tripoli dove sono liberati, grazie all’interessamento di un amico e finalmente soccorsi dalle strutture della diocesi guidata dal vicario apostolico Giovanni Martinelli. Ora si trovano tra la Libia e la Tunisia.«Alle autorità internazionali, in particolare alla Nato – ribadisce don Zerai – chiediamo di spiegare perché questi migranti non sono stati soccorsi. Vogliamo che sia fatta chiarezza e sia al più presto aperta un’inchiesta».Mentre l’Alleanza atlantica, attraverso la portavoce Carmen Romero respinge ogni accusa («L’unica portaerei in zona in quei giorni era l’italiana Garibaldi, che però si trovava a più di cento miglia nautiche al largo»), chiarezza su questa tragedia è chiesta dal Consiglio d’Europa, che il 23 maggio invierà una delegazione a Lampedusa. Anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, si aspetta che la Nato chiarisca, mentre il Partito democratico ha presentato due interrogazioni parlamentari alla Camera e al Senato.
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