Gentilmente, si preparino i parenti di Terracciano Alfonso…». Per quanto il funzionario del comune di Monteforte si sforzi di ammorbidire il lessico burocratico, la sostanza non cambia: i suoi sono avvisi di morte. Le persone che chiama devono avventurarsi in un terribile giro dell’orrore tra 35 bare sistemate in sette file nella piccola palestra dell’istituto comprensivo Aurigemma, tra materassini colorati e giochi per ragazzi. La probabilità di riconoscere un gioiello o un pezzo di vestito dei loro cari è alta, altissima. Riconoscere i volti, invece, è purtroppo impresa ardua. Sono appena le 7 di una giornata infinita, che si concluderà solo dopo dodici ore di pianti, rabbia e sole che picchia, con la surreale scena dei carri funebri che si incolonnano verso Pozzuoli per un corteo da 65 km, dalla montagna irpina al mare flegreo. Una scena che nemmeno un genio del noir avrebbe mai saputo immaginare, tra l’altro disturbata dall’intenso traffico della tangenziale per una partita di calcio che nessuno ha saputo rinviare.La contabilità del volo da 30 metri del bus della ditta Lametta, a sera, è scritta con biro blu su una cartellina celeste: 38 morti tra i quali il conducente, Ciro Lametta, fratello del proprietario e unico corpo sottoposto ad autopsia. Dieci feriti gravissimi, tra i quali cinque bambini dai 3 ai 10 anni sui quali arrivano poche e scarne informazioni. Roba da ammattire: al loro fianco non ci sono mamma e papà, distrutti dallo schianto. Inghiottiti da un viadotto al termine di una banale e serena gita alle terme di Telese conclusa con una visita a Pietrelcina, la città di Padre Pio.Nel campo allestito dai volontari nel giardino della scuola-obitorio, arriva minuto dopo minuto mezza Pozzuoli. È il grosso centro flegreo a pagare il prezzo più salato: 28 vite spezzate di tutte le età, giovanissimi, genitori e nonni. Tutte di Monteruscello, Licola e Toiano, i quartieri più popolari e sofferenti. Il sindaco, Vincenzo Figliolia, sembra un leone in gabbia. Il suo unico pensiero è riportare tutti a casa, togliere quelle bare dalla palestra. Ma le procedure sono lunghe e complicate. I medici legali devono esaminare dall’esterno ogni corpo prima di consentire la partenza, e ci mettono più di 5 ore. Il loro lavoro si svolge in condizioni igieniche quasi drammatiche. La gente fuori è sull’orlo di una crisi di nervi. Grida, piange, crolla. Ma si rialza. Regge, chissà come ma regge. La Chiesa c’è, per tutto il giorno. Di mattino presto arriva il vescovo di Pozzuoli, Gennaro Pascarella. Stringe ciascuna delle mani presenti. «C’è solo da pregare e stare vicini alle persone, tutte le parole in più sono superflue», dice con un filo di voce. Non ci sono frasi sensazionali da lanciare in una giornata del genere. Il presule sta lì, in silenzio, nella palestra, davanti alle bare, per un’ora intera. Poi vengono a sostenerlo il vescovo di Avellino, Francesco Marino, e quello di Nola, Beniamino Depalma. Insieme, impartiscono l’ultima benedizione in un silenzio surreale rotto solo dal soffio dei vecchi condizionatori portatili che il comune di Monteforte è riuscito a recuperare. Lungo la giornata arrivano i parroci delle vittime. Don Giorgio, don Elio, don Paolo… Don Antonio, sacerdote di Monteforte, fa pregare tutti prima della scena più straziante: le bare che escono dalla palestra in fila indiana, i nomi delle vittime attaccati sul legno con un foglietto di carta scritto a penna, i carri funebri che accolgono le vittime per riportarle, finalmente, nella loro terra.<+copyright>