«Sul barcone, man mano che qualcuno moriva, eravamo costretti a gettarlo in mare. Abbiamo visto altre barche ma non avevamo benzina per raggiungerle. Non ci hanno aiutato». Inizia così il racconto della 29enne eritrea che dal letto dell’ospedale Cervello di Palermo, dove è arrivata nei giorni scorsi a bordo di un elisoccorso del 118 partito da Lampedusa, ha confermato davanti alle telecamere l’ennesima tragedia del mare. Appare magra, anzi magrissima, la pelle del viso arsa dal sole e gli occhi stanchi. Nel corpo sono evidenti il trauma fisico e psicologico di 21 giorni trascorsi alla deriva tra le onde del Mediterraneo, sotto il sole cocente di giorno e avvolta dal freddo umido nella notte. Eppure accetta di parlare, si sforza di essere quanto più chiara possibile, addirittura gesticola, perché è importante che la gente sappia, che si renda conto. Il suo racconto suona come una denuncia. Ripete che sul gommone c’erano una ottantina di persone, che i maltesi dopo 17 giorni di navigazione li hanno avvicinati e hanno dato loro acqua, cibo e benzina. Per il resto non ag- giunge dettagli, e soprattutto non chiarisce cosa è successo nei quattro giorni successivi, se i maltesi li hanno scortati fino a Lampedusa o li lasciati andare. Punti cruciali, questi ultimi, nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla Procura di Agrigento, sui quali si continua ad indagare. «È stata una motovedetta a fornirci il carburante e a intimarci di proseguire per Lampedusa. Ci hanno dato anche cinque salvagente. L’equipaggio indossava pantaloncini corti e una maglietta di colore scuro. Uno di loro ha acceso il motore, perché noi non avevamo la forza per farlo, e ci ha indicato la rotta. Poi si sono allontanati senza aiutarci, malgrado le nostre condizioni», aveva raccontato un altro dei cinque naufraghi appena soccorso dal pattugliatore della Guardia di finanza e arrivato a Lampedusa. Racconti che, a quanto pare, avrebbero già trovato conferme nel ritrovamento di cinque salvagenti di fabbricazione italiana ma, pare, appartenenti alle autorità maltesi. Un dato di fatto che confermerebbe il contatto tra il gommone e la motovedetta dell’isola dei Cavalieri, di cui hanno parlato i migranti dopo aver raccontato della morte dei 73 compagni di viaggio. Padri, madri, fratelli, cugini, amici, i cui corpi giorno dopo giorno sono stati abbandonati tra le onde, in base al ritmo imposto dalla morte, soprattutto per inedia. Per fare chiarezza sulla vicenda, ieri sono iniziati ad Agrigento, in una struttura di accoglienza su cui viene mantenuto massimo riserbo, gli interrogatori dei sopravvissuti alla traversata del Canale di Sicilia: due uomini, due minorenni e la giovane donna. A sentirli il sostituto procuratore Santo Fornasier, titolare dell’inchiesta assieme al capo dell’ufficio Renato Di Natale. Intanto, seppure si tratta di “un atto dovuto” in base alla normativa recentemente introdotta dal governo, sempre ieri, dalla Procura hanno fatto sapere che i cinque eritrei saranno iscritti sul registro degli indagati per il reato di immigrazione clandestina. In serata, la precisazione del prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’immigrazione del Viminale: «I cinque eritrei non rischiano nulla se presentano la richiesta di asilo che, generalmente, per i Paesi in particolari situazioni di disagio viene accolta».