domenica 15 novembre 2009
Per la presidente del Coordinamento del volontariato penitenziario c’è scarsa trasparenza sull’uso delle celle di sicurezza. E propone di far scontare la pena ai tossicodipendenti in centri di recupero.
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Che sia fatta giustizia per il caso Cucchi. Ma anche che, passata l’onda mediatica, non si spengano i riflettori sull’emergenza carceri. Sono le due richieste che vengono da Elisabetta Laganà, presidente del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario (Seac), organismo nato nel 1967, che raggruppa un’ottantina di associazioni. Uno spaccato di un vero e proprio «esercito pacifico» costituito da tutto il volontariato della giustizia che – secondo una rilevazione dello scorso anno – impegna in totale 9mila persone.Un impegno da condurre "dentro", ma anche fuori. Perché, spiega Laganà, «esiste una fascia di detenzione sociale, che deve essere concretamente presa per mano dai servizi competenti. Le persone così hanno la possibilità di riabilitarsi realmente, mentre in carcere non possono che peggiorare la loro situazione». Tutte questioni che saranno affrontate nel convegno nazionale, che per la sua 42ª edizione, a Roma (19-20 novembre) si concentra sul tema Lo stato del sistema sanzionatorio e le prospettive. Quest’anno, però, non si potrà prescindere dai tanti casi tragici di questi giorni. Primo fra tutti, quello del geometra romano.Una vicenda certo non ordinaria. Come ha colpito voi che lavorate tutti i giorni in carcere?È solo uno tra gli eventi di un’emergenza silenziosa, perché sono tanti i fatti che non vengono alla ribalta. In questo momento l’attenzione dei media è sollecitata da fatti luttuosi. Pensiamo anche al suicidio della Blefari: in carcere i suicidi sono 15-20 volte più frequenti che fuori. Sul caso Cucchi evidentemente auspichiamo che la verità sia accertata. A qualsiasi livello e riguardo a qualsiasi professionalità. Ma ciò che ci preme di più è che non cali l’attenzione sulle carceri. Per far sì che allo sgomento, che si prova quando una persona finisce in questo modo, seguano atti concreti, che portino a migliorare le drammatiche condizioni dovute al sovraffollamento.Molti hanno denunciato - proprio a partire dal caso di Cucchi - un trattamento delle persone burocratico, quasi fossero numeri.Ciò non deve accadere. Soprattutto quando, come per Cucchi, c’è una famiglia molto attenta e molto presente. Poi, a quanto risulta dalla stampa, c’è stato un problema di tutela dei diritti: aveva chiesto di vedere l’avvocato e non gli è stato permesso. Un fatto inaccettabile. Infine, c’è il grosso discorso delle celle di sicurezza, sul cui funzionamento c’è pochissima trasparenza. Abbiamo saputo che a volte sono luoghi di privazione del diritto. Si parla giustamente di sicurezza della società. Ma si dovrebbe parlare anche di sicurezza dei soggetti sottoposti a misura penale, compresi i tossicodipendenti.Cosa bisognerebbe fare in questi casi?Il problema viene per lo più affrontato in termini di sanzione carceraria, mentre ci sarebbero molte alternative. Ai circa 10mila carcerati che fanno uso di stupefacenti si potrebbe far scontare la pena in situazioni e luoghi di cura e recupero. Come succede in progetti purtroppo molto piccoli nei numeri. Queste pratiche risolverebbero molti problemi, tra l’altro con costi molto minori, ed è sconfortante che non si attuino. Si prevede sempre più carcere.Qual è la vostra analisi in proposito?I dati dicono che è una rincorsa senza fine. Anche il piano carceri non riuscirà a stare alla pari con il ritmo delle carcerazioni: ottocento-mille detenuti in più al mese. Già nel convegno Seac del 2007, avevamo lanciato un grido di allarme, prevedendo che entro la metà del 2009 le carceri sarebbero state di nuovo sovraffollate come prima dell’indulto, se non si fosse proceduto urgentemente con le necessarie riforme. E avevamo visto giusto: nel luglio del 2009 nelle carceri erano presenti 64 mila detenuti. Perché è mancato un programma di soluzioni fattibili.
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