Nel dicembre 2012 lo spread scendeva sotto quota 300 (Ansa)
Per capire i problemi che la salita dello spread sta causando alle banche italiane si può partire guardando a quello che è capitato in questi mesi al Btp decennale emesso dal governo Renzi nel dicembre del 2015. È un’obbligazione che rappresenta bene la situazione di mercato del nostro intero debito pubblico: è un titolo che sarà interamente rimborsato fra 7 anni e 7,3 anni è anche la vita media residua dei titoli di Stato italiani in circolazione. Questo Btp è andato all’asta tre anni offrendo a chi lo comprava un tasso del 2%. Salvo una parentesi di qualche settimana nel 2017, sul mercato la sua quotazione è sempre rimasta superiore a 100: chi lo aveva comprato all’asta iniziale poteva cioè sempre rivenderlo a un prezzo almeno pari a quello d’acquisto. È stato così fino allo scorso maggio, quando ancora il Btp era a quota 104. Poi è iniziata la discesa e adesso quel Btp è quotato 93. Significa che 1.000 euro di obbligazioni di debito pubblico italiano che ogni anno pagano 20 euro di tassi lordi oggi si possono comprare per 930 euro. Per chi li ha in portafoglio c’è stata una svalutazione del 7% e il rendimento del titolo è salito dal 2 al 2,15%: se i 20 euro sono infatti il 2% di 1.000 sono però il 2,15% di 930.
Poco male per un piccolo risparmiatore che ci abbia investito 1.000 euro all’inizio pensando di tenerli fino al 2025: sapeva che ogni anno avrebbe incassato quei 20 euro e così continuerà ad essere. Quel calo del 7% non lo turba, dato che non ha intenzione di vendere i Btp. Per una banc a è diverso. Intanto sono diverse le cifre: magari la tesoreria dell’istituto di credito ha comprato 100 milioni di euro di quel titolo e il suo portafoglio si è svalutato di 7 milioni. Ecco, se con un calcolo un po’ rozzo ma efficace applichiamo questa svalutazione media del 7% a tutti i 372 miliardi di titoli di Stato che le banche italiane avevano nei loro bilanci lo scorso agosto, la perdita cumulata sale a 26 miliardi di euro.
Certo, gli istituti di credito magari vogliono fare come quel risparmiatore e cioè tenere i Btp finché non scadranno, e così facendo – salvo disastrosi e oggi per fortuna improbabili default della Repubblica italiana – non perderà nulla. Però a differenza del risparmiatore la banca deve mostrare i suoi conti ogni tre mesi agli investitori e tutte le volte che le viene richiesto alle autorità di vigilanza. Se i titoli nei suoi portafogli hanno perso valore, l’istituto deve segnare una perdita contabile. Quel rosso erode il suo capitale e la banca diversamente dal risparmiatore non può perdere tutti i soldi che vuole. È infatti obbligata a tenere il rapporto tra capitali propri e attivi (cioè prestiti) ai livelli definiti dalla vigilanza, cioè dalla Banca centrale europea per gli istituti più grandi e dalla Banca d’Italia per quelli minori.
Se i suoi capitali diminuiscono oltre quella soglia, o riduce i prestiti oppure deve provvedere a raccoglierne di nuovi: ad esempio chiedendo ai soci di partecipare a un aumento di capitale, oppure chiedendoli in prestito con bond la cui raccolta può essere considerata suo “capitale”. Ad esempio le ormai famigerate “obbligazioni subordinate”.
Questo è il principale costo dello spread sul sistema bancario italiano: ogni volta che i tassi salgono significa che Btp si svalutano e quindi i si impoveriscono anche i capitali delle banche. Carlo Tommaselli, analista di Credit Suisse specializzato sul settore bancario, un mese fa ha presentato uno studio in cui calcolava che ogni 100 punti di aumento dello spread riduce di 38 punti base il parametro patrimoniale di base, il Cet1. Secondo le sue stime tra il primo e il secondo trimestre di quest’anno la svalutazione dei titoli di Stato è costata più di 3 miliardi alle sei principali banche italiane. Fortunatamente grazie alle massicce operazioni per rinforzare il capitale completate dagli istituti di credito in questi anni nella situazione attuale pochi istituti rischiano davvero e hanno spalle abbastanza larghe da sopportare un’ulteriore svalutazione dei Btp (quantificabile in altri 100 punti di spread). Però ci sono alcune banche come Carige e Montepaschi che hanno coefficienti patrimoniali bassi e sono già in difficoltà.
L’altro problema è quello della liquidità. Probabilmente esagerando il Financial Times scrive che «le banche italiane sono, di fatto, escluse dai principali mercati di finanziamento ed è quasi impossibile per le banche più deboli dell’Italia raccogliere capitali a tassi economici». Però è vero che sul mercato interbancario, quello in cui le banche si scambiano liquidità, i nostri istituti iniziano a rischiare di subire significativi aumenti dei costi.
Questo sempre che la situazione non degeneri con un ulteriore declassamento del debito italiano da parte di Moody’s combinato a un doppio taglio, oggi, da parte di Standard & Poor’s. Se i nostri Btp perdessero il giudizio “investimento” da parte di tutte le agenzie di rating, le banche non potrebbero darli alla Bce a garanzia della liquidità che ricevono da Francoforte. A quel punto sarebbe allarme rosso.