Si ricorda ancora bene dell’enorme boato che squassò la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura: le ferite, la paura, la fuga precipitosa dall’edificio, lo shock per lo spettacolo impressionante scorto nell’atrio devastato. Non ne ha mai parlato per quarant’anni, anche perché la vicenda lo ha segnato per lungo tempo. Lavorava infatti al primo piano Flavio Nardin, all’epoca impiegato da nove anni all’Ufficio portafoglio, assegni e vaglia, e rimase sconvolto – con i suoi colleghi – dall’attentato: ancor più quando ripensò di avere scampato la mor- per pochi minuti. «Erano passate da poco le 16 e 30 e mi ero appena seduto alla mia scrivania, dopo aver portato alcuni documenti passando per il salone dove si trovava il tavolo intorno al quale gli agricoltori facevano le loro contrattazioni». È il tavolo sotto cui fu lasciata la borsa con l’ordigno: «Ogni venerdì pomeriggio – racconta oggi Nardin – si incontravano presso la nostra sede di Milano tanti agricoltori, che magari avevano il conto corrente presso le nostre filiali dei paesi della campagna milanese: ce n’erano – snocciola ancora con precisione e in ordine alfabetico – ad Abbiategrasso, Binasco, Gorgonzola, Locate, Magenta, Melzo, Ner- Paullo, Rho, Rosate. Il venerdì pomeriggio, lasciando talvolta in Piazza Fontana macchine mungitrici o trattori da vendere, contrattavano merci e attrezzature riunendosi, sia fuori dalla bante ca, sia dentro, nel grande atrio circolare dove era stato collocato un tavolo, mentre tutt’intorno si trovavano gli sportelli dei vari servizi bancari ». Improvvisa si verificò la tragedia: «Vidi un grande bagliore invadere il locale e sentii un terribile scoppio scuotere l’ambiente: tutte le vetrate dei nostri uffici che si affacciavano sull’emiciclo interno andarono in frantumi. Milioni di schegge di vetro furono proiettati in tutte le direzioni. E la luce saltò». Immediato si diffuse lo scompiglio, il panico prese tutti gli impiegati: «Qualcuno diceva che era scoppiata la caldaia, tutti cercavano di guadagnare l’uscita, ci fu una corsa verso la scala interna che conduceva al salone, dove ci aspettava però uno spettacolo terribile: pur nella semioscurità – era una giornata grigia – si vedeva sangue dappertutto e poi corpi, orrenviano, damente mutilati, sparsi per tutto l’atrio». Lo spavento cresce, e la consapevolezza che era accaduto qualcosa di veramente terribile: «Mi ritrovai in strada senza cappotto né cappello (avevo lasciato anche l’orologio sulla scrivania) e come un automa mi diressi in una portineria per telefonare a mia moglie, a casa con due figli piccoli, e tranquillizzarla. Ma lei, che era ignara dell’accaduto, trovò strano che tornassi a casa invece di fare un po’ di lavoro straordinario». Per tornare a casa, a Precotto, doveva prendere la metropolitana: «Non ricordo come convinsi l’agente della stazione Duomo a lasciarmi passare così com’ero, senza biglietto: gli dissi che c’era stata un’esplosione e dovevo tornare a casa». Il signor Nardin però non si vedeva allo specchio: l’agente Atm l’avrà visto sconvolto e ferito come lo notò la moglie, che sbiancò appena il marito si presentò alla porta di casa, in maglione, sanguinante alle mani e alla testa, sguardo perso. Dai notiziari della sera, crebbe la consapevolezza che non si era trattato di una disgrazia: «Mi vennero i brividi a ricordare come ero passato di fianco al punto dell’esplosione pochi istanti prima...». E il senso di timore si protrasse a lungo: «Nei mesi successivi, il nostro ufficio fu spostato nella parte posteriore dell’edificio, con le finestre su via Larga: di lì, nei primi anni Settanta, si vedevano spesso i disordini tra polizia e gruppi di manifestanti, ma noi abbassavamo subito le tapparelle perché temevamo sempre qualche pallottola vagante». Il buco causato dalla bomba