In mano ha cinque euro. Haile saluta educatamente e sparisce nelle vie della “piccola Asmara” di Milano. Torna dopo una mezz’ora, per riprendere una conversazione interrotta. «Lei piange, piange sempre. Da un anno si trova in Libia e non ha nessuno che la aiuti. E in Libia è molto difficile per le donne» . Il pensiero della sorella, appena diciottenne, lo porta lontano per qualche minuto. Poi riprende a parlare. Racconta del suo Paese, dell’Eritrea. Dei motivi che lo hanno spinto a fuggire, nel 2002, e che lo hanno portato dopo sette anni di sofferenze, ad arrivare in Italia, dove ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Come lui sono fuggiti Omar, Salomon, Gabriel. Tutti giovanissimi, poco più che ventenni, in fuga da un Paese che il presidente Isayas Afeworki ha trasformato in un enorme accampamento militare. In fuga da un Paese che, ai propri figli e alle proprie figlie, non offre altro che la possibilità di imbracciare un fucile. «Sawa», è la parola che ricorre più frequentemente nei loro ricordi. «È un enorme campo di addestramento militare poco distante dal confine con il Sudan – racconta Omar, 24 anni e inglese fluente – tutti i giovani devono andare lì per completare gli studi superiori. E allo stesso tempo c’è l’addestramento militare». Sveglia all’alba e poi due ore di corsa, questo l’inizio della giornata tipo a Sawa, poi esercizi e marce, infine lo studio. «È durissima – aggiunge Omar – in quella zona le temperature raggiungono i 40 gradi. Le donne soffrono tantissimo». Già perché alla naja imposta da Afeworki non sfuggono nemmeno le ragazze. Ci si entra presto, verso i 1516 anni e dopo il training di Sawa inizia il servizio militare vero e proprio: dai 18 anni fino ai 40 per gli uomini, e fino ai 27 (almeno) per le donne. Senza eccezioni, sparpagliati sui confini “caldi” con il Sudan o l’Etiopia e spesso sottoposti ai lavori forzati come ha denunciato Amnesty International. «Chi cerca di scappare e viene ripreso finisce in carcere – precisa Haile – chi tenta di evitare il servizio militare finisce in carcere ». Non ci sono licenze, non ci sono permessi «puoi vedere la tua famiglia solo per 15 giorni all’anno, ti sembra giusto? », chiede Omar. Quale futuro può esserci in un Paese ridotto alla fame, in cui il carburante è razionato e i negozi sono vuoti? Sempre Amnesty International denuncia una situazione allarmante: circa metà della popolazione eritrea vive « in condizioni di sottonutrizione costretti a dipendere dagli aiuti alimentari internazionali ». Non esistono giornali indipendenti, né i partiti di opposizione, i missionari stranieri sono stati allontanati (nel novembre 2007, a 14 religiosi italiani non venne rinnovato il permesso di soggiorno, ndr ) e non esiste nessuna forma di attività della società civile. Persino professare la propria fede è molto difficile. Il governo infatti punta a controllare ogni cosa, anche l’autonomia degli organismi religiosi. «Nel 2006 il patriarca della Chiesa ortodossa eritrea è stato arrestato. Apparentemente c’è libertà di religione, nessuno ti impedisce di pregare, ma il governo arresta chi non accetta le sue imposizioni», spiega M., un sacerdote di appena 25 anni, fuggito proprio per difendere il suo diritto «a pregare Dio e dire alla gente quello che ha detto Gesù Cristo. Ma in Eritrea non puoi farlo». Non racconta i perché della sua fuga e non vuole che il suo nome venga reso noto «per non mettere in pericolo i miei amici che sono rimasti ad Asmara ». «Non abbiamo futuro», conclude Omar con rabbia. Meglio rischiare la vita nel Sahara o sulle carrette del mare, che restare. Da Sawa, tre giorni di marcia verso il Sudan, poi 15 giorni nel deserto, fino a Tripoli. Un pedaggio di 500 euro ai trafficanti di uomini e poi il salto del Mediterraneo, verso Lampedusa. Alza tre dita: «Ibrahim, Abdul, Omar. Erano miei amici e sono morti in mare».