«Una brutta giornata, già, davvero una brutta giornata». Il capo di Stato Maggiore della missione Isaf in Afghanistan, il generale Marco Bertolini, trattiene a stento le lacrime parlando dell’uccisione del primo caporal maggiore Di Lisio e del ferimento dei suoi commilitoni a Farah. Eppure non te l’aspetteresti dall’ex comandante della Folgore, figlio di uno dei pochi reduci di El Alamein, cresciuto nel IX Col Moschin, in Afghanistan dallo scorso novembre a coordinare ben 60mila uomini del contingente internazionale. Oppure, proprio per questo, invece sì. «Vorrei lanciare un appello alla società italiana – aggiunge commosso, ma fermo –, che questa disgrazia non sia quella di una singola famiglia, questo dolore dobbiamo condividerlo tutti. Dobbiamo dare il nostro appoggio a questi soldati che fanno un’opera importantissima per l’Afghanistan, che tutti i giorni rischiano la vita in un deserto con un fucile in mano. Stanno operando bene e rendono onore al nostro Paese».
Generale Bertolini, la situazione in Afghanistan si fa sempre più calda. Dieci soldati britannici uccisi in poche ore, attentati sempre più frequenti agli italiani. Quanta preoccupazione?«Siamo tutti consapevoli dei rischi che stiamo correndo. L’attentato non è stato mirato contro unità italiane in quanto tali, ma contro Forze Nato in generale come dimostrato dalle numerose perdite subite da altri contingenti negli ultimi giorni».
L’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 20 agosto ne è la causa principale?«C’è un incremento dei combattimenti dovuto alle prossime elezioni e stiamo valutando quanto questo inciderà. Sono elezioni estremamente importanti, dovrebbero rafforzare la stabilità istituzionale dell’Afghanistan. Tutte le forze Isaf, sia italiane sia della Nato, sono impegnate a garantire il controllo del territorio afghano in modo che le autorità locali possano esercitare la loro sovranità. Ma in questo periodo dell’anno i combattimenti aumentano anche perché i ribelli non sono più impegnati nella raccolta dell’oppio».
Certo è che con la maggiore presenza di reparti speciali italiani direttamente impegnati sul territorio sono aumentati i rischi.«L’Italia ha concentrato la brigata paracadutisti della Folgore nella valle del Musashi a sud di Kabul, a Bala Morgab e a Farah. L’attività dei "battle group" va a diretto supporto dell’esercito e della polizia afghane, per rendere soprattutto sicure e transitabili dai locali afghani le vie di comunicazione più importanti, come è appunto la statale 517 che porta da Farah alla Ring Road, dove è avvenuto l’attentato. Queste aree da sempre sono teatro di scontri e combattimenti».
Avete notato dei cambiamenti nelle forze contrapposte?«Gli insorti sono particolarmente forti, agguerriti e ben equipaggiati. Questi sono addestrati militarmente, non sono dei cani sciolti. Noi dobbiamo opporre tattiche militari avanzate per contrastare tattiche dello stesso livello. I nostri parà sono molto professionali, agiscono con grande determinazione. Ma la situazione è pericolosa».
Sinora i mezzi blindati Lince hanno salvato molte vite italiane.«Ma stavolta no, perché la carica esplosiva era più potente. E le cariche saranno sempre più forti. Ci stiamo adeguando con delle contromisure, ma l’arma segreta perfetta che ci ripari da chi ci vuole uccidere non c’è».
Generale, sinceramente lei vede un’uscita dal tunnel per l’Afghanistan?«Sappiamo che non è facile, ma la popolazione è stanca di guerre, ha bisogno di normalità e non vuole il ritorno talebani. L’uscita tunnel c’è, ma occorre un impegno ad ampio raggio, sia sulla sicurezza, sia sulla ricostruzione, cosa che già noi facciamo. Ma non si può delegare tutto ai militari, occorre affiancare l’azione di altre istituzioni».