l Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con Mario Draghi, Presidente del Consiglio dei Ministri, 20 dicembre 2021 - ANSA/ UFFICIO STAMPA QUIRINALE/ PAOLO GIANDOTTI
L’escalation è iniziata: alla Camera, ieri, al voto finale sul decreto-Aiuti, M5s è uscito dall’aula a ranghi compatti, con l’eccezione di un solo dissidente "governista", Francesco Berti. Il testo passa comunque con il magro bottino di 266 sì, ma l’esame al Senato, con la fiducia tra domani e giovedì, diventa un bivio vero nel rapporto tra pentastellati e maggioranza, tra Giuseppe Conte e Mario Draghi. E il premier non si limita a prendere atto: nel pomeriggio sale al Colle e con il capo dello Stato, Sergio Mattarella, fa una prima analisi della situazione. Una "pre-verifica" prima che si realizzi il fatto politicamente più rilevante: perché se a Montecitorio il "non voto" sul decreto era stato preceduto, giovedì, dalla conferma della fiducia M5s al governo, a Palazzo Madama uscire dall’emiciclo vuol dire non rispondere alla questione di fiducia che l’esecutivo porrà nelle prossime ore. Al Colle, Sergio Mattarella ha soprattutto ascoltato Mario Draghi. Il quale, nelle ultime ore, sarebbe arrivato alla determinazione di andare avanti senza scossoni con il governo anche in presenza della «non fiducia» di M5s.
Non è certo la prima volta che un partito si avvia ad aprire una crisi di governo perché la permanenza nella maggioranza risulta controproducente dal punto di vista elettorale. E non è certo la prima volta che pre-crisi e crisi si accavallano in momenti delicatissimi e 'inopportuni': l’avvento di Draghi al posto di Conte, ad esempio, è avvenuto nel cuore della pandemia e senza che nemmeno fosse pienamente avviata la campagna vaccinale.
Insomma, non è questo che 'sconvolge' del torrido luglio di Campo Marzio - quartier generale M5s - e Palazzo Chigi. Colpisce, piuttosto, la caoticità e la mancanza di linearità dei passaggi istituzionali e politici. Fronte Conte, abbiamo un problema politico-elettorale (M5s perde voti qualsiasi sia il governo che sostiene, dal giallo-verde alle larghe intese passando per il giallorosso) che si pensa di poter attutire passando all’opposizione gli ultimi mesi di legislatura.
Legittimo, senz’altro, ma, allo stesso tempo, tardivo, perché è dalle Europee del 2019, prima grossa sconfitta elettorale, che il Movimento rinvia una seria riflessione sulla propria identità politica. Anche la scelta dei dossier lascia perplessi: prima si è impugnata la spada sui dossier internazionali, di solito lasciati fuori dal ring della politica interna, ora si porta la tensione al massimo livello su un provvedimento che comunque distribuisce risorse contro la crisi economica. Nel metodo, poi, si ragiona su una «non fiducia» al Senato che però non andrebbe interpretata come una «sfiducia» perché pochi giorni fa alla Camera sullo stesso testo è stata confermata la «fiducia».
Tutto di difficile comprensione.
Fronte Draghi, nemmeno qui abbonda la linearità, in realtà. Il premier è rimasto fermo, di ghiaccio, di fronte alla megascissione del primo partito della sua maggioranza, ritenendolo un fatto poco rilevante per l’azione del suo governo. Era evidente invece la portata di quanto accaduto. E solo in extremis, pochi giorni fa, ha voluto ribadire la centralità del Movimento per la sua maggioranza. Mentre in altri frangenti, quando era la Lega a fare le bizze, i segnali di Palazzo Chigi per l’unità e integrità della maggioranza erano stati non solo chiari, ma anche tempestivi. Ciò ha alimentato equivoci e diffidenze.
Ora entrambi, Conte e Draghi, si trovano di fronte alle conseguenze di una gestione disordinata di una crisi annunciata. Hanno pattuito una tregua, una 'resa dei conti' con timing lungo, a fine mese, di modo da non nuocere alla legislatura e alla manovra d’autunno. Ma se non riprendono la guida politica di quanto avviene in Parlamento, si troveranno di fronte scenari diversi da quelli che avevano immaginato.