domenica 6 febbraio 2011
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«Non hai lo sguardo di una donna che vuole interrompere la gravidanza», disse Rossana mentre prendevamo un caffè al bar. «Lo terrai questo bambino, te lo dico io». Oggi ripenso a quella frase, e mi viene da sorridere. Ero rimasta incinta senza volerlo, a un’età in cui persino il pensiero di un bambino fa girar la testa, figurarsi la notizia di aspettarlo davvero. Il padre del piccolo era scomparso nel nulla, appena dopo aver saputo. E con tutti i miei dubbi, le mie paure, la mia confusione, adesso ero lì, davanti a Rossana, una bella signora gentile, con gli occhi pieni di luce, che con assoluta certezza prediceva un futuro che non vedevo mio, che non sentivo. Lei parlava di quel figlio e io intanto mi ripetevo: «Che faccio qui? Di cosa parla, questa donna?».Il nome di Rossana mi era stato fatto la prima volta in ospedale, il giorno in cui dovevo abortire. Avevo già fatto tutti gli accertamenti, la data era arrivata: alle otto del mattino ero già lì, seduta nel corridoio in attesa che mi chiamassero per fare l’intervento. C’era un’altra ragazza che aspettava con me, in compagnia del fidanzato. Quando arrivò l’infermiera a chiamarla, la sentii che gli diceva: «È inutile che aspetti qui, vieni a prendermi intorno a mezzogiorno, penso che per quell’ora avrò finito». «Finito, tra qualche ora sarà tutto finito», pensai. L’infermiera pronunciò il mio cognome; feci qualche passo verso di lei, poi mi arrestai e per la prima volta, con una sorpresa inaudita, sentii la mia voce che diceva: «No, io non entro... Ora non me la sento, vorrei spostare l’appuntamento». Lei mi guardò interdetta, poi chiamò il chirurgo. Gli spiegai che non ero sicura, lui mi rispose in malo modo: «Torni quando lo sarà, non abbiamo tempo da perdere qui!». Rimasi immobile nel corridoio per non so quanto tempo, con quella mia frase che girava ancora nell’aria. Presi l’ascensore e mi avviai verso l’uscita. Al piano terra incontrai un’assistente sociale: mi vide sconvolta, mi chiese cosa avevo, le raccontai l’accaduto. E per la prima volta mi venne fatto quel nome: «Ci sono degli aiuti, per le ragazze come te, ci sono i centri d’aiuto – mi disse –. Ti scrivo qui il numero del più vicino, la responsabile si chiama Rossana». Con quel foglio in mano me ne tornai a casa, e sprofondai di nuovo nella mia disperazione. Per me era impossibile tenere il bambino, altro che centri e aiuti e responsabili di nome Rossana: chiamai di nuovo in ospedale e fissai un altro appuntamento. Poco importava che i miei genitori, saputo della gravidanza, mi avesse dato tutto il loro appoggio e implorato di non abortire. Una parte di me quel figlio lo rifiutava, lo respingeva.Alla vigilia del mio secondo appuntamento in ospedale, chiamò il padre del bambino. Era un mese che non lo sentivo. Voleva sapere se avevo risolto “il problema”. Andai su tutte le furie, gli dissi che avevo deciso di tenerlo, quel figlio che lui non voleva. Riattaccai: ero sconvolta, ebbi un mancamento e cominciai a perdere sangue. Fu allora, che diventai madre. Chiamai i miei genitori e dissi: «Portatemi al pronto soccorso, non voglio perdere questo bambino!». In ospedale mi dissero che avevo avuto una minaccia d’aborto e mi curarono. Una volta uscita, col mio bimbo nel grembo, chiamai Rossana e la incontrai. Una, due, cento volte. Lei e un sacerdote, padre Paulus, mi accompagnarono ogni giorno della gravidanza: fu un inferno, piena di angosce, incertezze... Ma loro erano lì, a ripetermi quanto questo bambino mi avrebbe resa felice, anche quando la madre che era in me scompariva di nuovo, e tornava la ragazza impaurita, che voleva farla “finita”.Oggi Gabriele ha tre mesi e mezzo ed è la cosa più bella che abbia mai visto! Lo guardo dormire e mi avvicino per ascoltare i suoi respiri... Non vedo l’ora che apra gli occhi, che sembrano due stelle. È la stessa luce che ho trovato e trovo ogni volta che ho bisogno negli occhi di Rossana. Ora so cos’è: è la luce della vita! Lei prima, e poi il mio Gabriele, “potenza di Dio”, hanno rimesso la luce nella mia vita.
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