venerdì 5 luglio 2013
Fino a che punto si possono spingere le tecniche ricostruttive senza compromettere l’equilibrio psicologico? Confronto tra specialisti dopo il caso della "rinuncia" all’arto operato nel 2000 dal professor Lanzetta.
Iannetti: «L'intervento sia per la persona, non soltanto per la pubblicità»
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L'annunciato trapianto di testa presentato dal neurologo italiano Sergio Canavero fa discutere la Gran Bretagna. Per il Telegraph è una storia "Frankenstein-style" e Calum Mackellar dello Scottish Council on Human Bioethics non esita a definirla "da film horror". Lo scetticismo inglese riguardo alla concreta possibilità di connettere un corpo a una testa che non è la sua, va di pari passo con quello già espresso dai colleghi italiani. Al netto dei costi - si parla di 8,5 milioni di sterline per una maratona di 36 ore in sala operatoria - interventi così radicali sollevano interrogativi etici e clinici non indifferenti. Gli stessi che sorgono quando si parla di trapianti di arti o di volto, che pur rappresentando una grande conquista della medicina, trasformano profondamente la vita di chi vi si sottopone, portando con sé  contraccolpi psicologici che non è possibile eludere o sottovalutare. Il caso di Walter Visigalli, l’uomo che a distanza di 13 anni, ha preferito qualche giorno fa farsi amputare la mano trapiantata, è esemplare in questa prospettiva. Le immagini di Visigalli, felice e incredulo mentre accarezzava il suo arto dopo l’intervento realizzato a Monza da Andrea Lanzetta, avevano riempito le pagine dei giornali e gli schermi tv.  Come ricordato dagli psicologi, la differenza sostanziale tra il trapianto e un altro atto chirurgico è che il trapianto costringe a «legare assieme» ciò che è biologicamente ma anche psicologicamente e naturalmente inconciliabile. Di elaborazione della perdita ha parlato esplicitamente Jocelyne Magne, psicologa dell’ospedale Cochin di Parigi: «Il paziente deve fare il lutto dell’identità perduta e appropriarsi del suo nuovo aspetto, sapendo che non recupererà mai quello di prima». L’obiettivo di questi trapianti è quello di ricostruire volti o arti sfigurati a causa di patologie gravissime o traumi devastanti, ma la procedura è ardua e complessa. L’operazione richiede almeno quindici ore di lavoro, con diversi medici che si alternano in più sale operatorie. Il viso da impiantare viene asportato da un cadavere con epidermide, nervi e grasso, per poi essere ricucito sui muscoli della persona che la riceve. Dopo l’intervento, i pazienti devono assumere medicine per anni per evitare il rigetto. Un trattamento che ha costi psicofisici gravi e che, alla lunga, con l’abbassamento delle difese immunitarie, può favorire infezioni mortali. Nel 2004, dopo che un team dell’Università di Louisville, nel Kentucky, aveva rivelato di voler procedere in tempi brevi all’operazione di trapianto completo del volto da un individuo in stato di morte cerebrale a uno sano, il New York Times aveva espresso perplessità non in ordine alla fattibilità scientifica, ma di ordine etico: «È una tecnica repellente e affascinante in egual misura. La faccia non è un organo come gli altri. è il modo con cui esprimiamo noi stessi agli altri e il modo con cui gli altri ci riconoscono per quel che siamo. Dobbiamo essere molto prudenti nel valicare certe frontiere». Nove anni dopo, a frontiere superate e a fronte dei casi di "pentimento" riportati dalle cronache, è Anthony Warrens della British Transplantation Society a deplorare l’ipotesi del trapianto di testa: «Una procedura priva di valore per gli esseri umani di oggi».
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