giovedì 14 aprile 2011
Foto sbiadite, lettere, scarpe spaiate. L’associazione Askavusa da mesi raccoglie quello che trova su relitti e litorali. Sono i “racconti” dei migranti: nomi, speranze e sogni di vita spezzati.
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Il mare, il sole, i pesci hanno di­vorato lembi di carta e suole di scarpe, foto ricordo e libri di pre­ghiere, teiere e pentole di alluminio. Ma quegli oggetti malconci e stinti sono ancora lì, sopravvivono ai loro proprietari per merito di un gruppo di quindici audaci lampedusani au­toctoni o di adozione, che hanno ro­vistato tra i relitti della speranza, ne­gli indumenti restituiti dalle onde, tra gli scogli. C’è perfino un mes­saggio nella botti­glia, che custodisce i sogni di una ragazza come tante, partita per cercare la libertà e di cui non si cono­sce la sorte. «Chiun­que troverà questa lettera lo prenderò come marito, secon­do rito musulmano» scrive in poche righe tradotte dall’arabo dai ragazzi dell’asso­ciazione Askavusa (a piedi scalzi), che custodiscono questo e altri teso­ri in due stanzette al centro del pae­sino di Lampedusa e sognano di far­ne un museo e un centro studi. «Fu la sceneggiatrice del film di Cria­lese 'Terraferma' a trovare questa bottiglia tra gli scogli di Linosa a fine 2010», racconta Giacomo Sferlazzo, responsabile dell’associazione che nei giorni dell’emergenza, quando i migranti superavano gli abitanti di Lampedusa, ha moltiplicato gli sfor­zi per distribuire pasti, offrire la pos­sibilità di una doccia, di un cambio di vestiti, di un posto all’ombra. An­che Wissen Alayet si è unito a loro per un paio di settimane. Il giovane tu­nisino, da anni regolare in Francia, era arrivato a Lampedusa per cerca­re il fratello minore partito dalla Tu­nisia, ma di cui non si avevano più notizie. Ma, giunto sull’isola, è stato investito anche lui dall’emergenza. E s’è messo all’opera, cominciando a fare da interprete. Finché gli è arri­vata la ferale notizia: il corpo del fra­tello trovato a galla davanti alle coste tunisine. Il presentimento è diventa­to realtà. «Ma era felice di essere sta­to qui, di essersi sentito utile – con­tinua Sferlazzo –. 'Ho perso un fra­tello, ma ne ho trovati tanti altri' ci ha detto prima di andare via». Curiosando tra gli oggetti dei mi­granti, sembra quasi di sfogliare un album di famiglia, composta da po­poli diversi, ma desiderosi tutti di vi­vere in pace, lontano dalla propria terra. Come nel gio­co 'l’unica cosa che porteresti sulla Lu­na', c’è chi custodi­sce gelosamente u­na foto col suo bam­bino, chi quella col proprio vestito tra­dizionale, chi un pacchetto di tè del Bangladesh, chi dentifricio e brillan­tina. Tra i rottami delle barche tanti li­bri del Corano e testi di preghiere cristia­ne e moltissime scarpe, spaiate, con­sumate, di bambini, di uomini, di donne, come nei campi di concen­tramento nazisti. Ma è la parola che trionfa. Quella mi­nuscola e incomprensibile, vergata in amarico e tigrino, arabo e benga-­lese, trovata in decine di lettere chiu­se in sacchetti di plastica, perfetta­mente conservate. Un giorno Giaco­mo Sferlazzo, che candidamente di­chiara di essere stato sempre affasci­nato dalla spazzatura, trova anche u­na bustina di cuoio cucita. Dentro, avvolti in una plastica rossa, alcuni foglietti. Un ritrovamento che di­venta un quadro, come i tanti realiz­zati con i resti dei barconi, come quello azzurro a forma di pesce su cui i tunisini qualche giorno fa han­no voluto scrivere Dio, come quello dedicato a Santa Maria di Portosal­vo, dove anticamente pregavano i musulmani e i cristiani e tutti si sen­tivano a casa.
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