Il processo torinese per le morti da
amianto era prescritto prima ancora del rinvio a giudizio
dell'imprenditore svizzero Schmideiny: lo sottolinea la
Cassazione nelle motivazioni, depositate oggi, del verdetto di
prescrizione che lo scorso 19 novembre ha, tra l'altro,
annullato i risarcimenti alle vittime. Ad avviso della Cassazione "a far
data dall'agosto dell'anno 1993" era ormai acclarato l'effetto
nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione, in
quell'anno, era stata "definitivamente inibita, con comando agli
Enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti". "E da tale
data - prosegue il verdetto - a quella del rinvio a giudizio
(2009) e della sentenza di primo grado (13-02-2012) sono passati
ben oltre i 15 anni previsti" per "la maturazione della
prescrizione in base alla legge 251 del 2005". Per effetto della constatazione della prescrizione del reato, intervenuta anteriormente alla sentenza di I grado", cadono "tutte le questioni sostanziali
concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni".
Ad avviso della Cassazione
l'imputazione di disastro a carico dell'imprenditore svizzero
Stephan Schmidheiny non era la più adatta da applicare per il
rinvio a giudizio dal momento che la condanna massima sarebbe
troppo bassa, per chi miete morti e malati, perché punita con 12
anni di reclusione. Lo scrivono i supremi giudici nel verdetto
Eternit. In pratica "colui che dolosamente provoca, con la
condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in
sostanza, una strage" verrebbe punito con solo 12 anni di
carcere e questo è "insostenibile dal punto di vista
sistematico, oltre che contrario al buon senso", aggiunge la
Suprema Corte.
Per la Cassazione "la consumazione
del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il
momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri"
d'amianto "prodotte dagli stabilimenti" gestiti da Stephan
Schmidheiny e cioè "non oltre il mese di giugno dell'anno 1986,
in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo".
Lo scrivono i supremi giudici nelle motivazioni del verdetto
Eternit. Con il fallimento - scrive la Cassazione - "venne meno
ogni potere gestorio riferibile all'imputato e al gruppo
svizzero" e gli stabilimenti (Casale Monserrato e Cavagnolo in
Piemonte, Napoli-Bagnoli in Campania e Rubiera in Emilia,
cessarono l'attività produttiva "che aveva determinato e
completato per accumulo e progressivo incessante incremento la
disastrosa contaminazione dell'ambiente lavorativo e del
territorio circostante".