Luca Attanasio in un immagine tratta dal profilo facebook - ANSA
Sono stati condannati all'ergastolo i sei imputati nel processo del Tribunale militare di Kinshasa per gli omicidi dell'ambasciatore italiano in Repubblica democratica del Congo, Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell'autista del Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite, Mustapha Milambo, il 22 febbraio 2021.
Il procedimento ha visto imputati e riconosciuto colpevoli cinque membri del commando assassino (un sesto, il capo della banda, latitante, è stato giudicato in contumacia). La difesa, che ha subito preannunciato il ricorso, aveva chiesto l'assoluzione per non aver commesso il fatto, o almeno per dubbi sulla responsabilità degli accusati.
Nella sentenza, il tribunale militare congolese ha anche riconosciuto alla Repubblica Italiana un risarcimento a carico dei condannati equivalente a un milione e novecentomila euro «in via equitativa», cioè stabilito dalla Corte. I sei congolesi condannati, processati per omicidio, associazione a delinquere e detenzione illegale di armi e munizioni da guerra, erano stati descritti dall’accusa come componenti di una «banda criminale» dedita alle rapine di strada e che voleva rapire l’ambasciatore a scopo di riscatto, ma che poi l’aveva ucciso assieme ai due suoi collaboratori.
La sentenza tuttavia non chiarisce diversi punti ancora oscuri, con le stesse dinamiche processuali poco chiare: mentre il tribunale ha confermato che si sarebbe trattato di un tentato rapimento dell'ambasciatore con richiesta di riscatto, gli imputati hanno denunciato che le loro confessioni sono state estorte sotto tortura. E la famiglia del diplomatico si è presentata come parte civile anche nel tentativo di avere accesso alle carte processuali. L’accusa aveva chiesto per i sei imputati la pena capitale, i giudici hanno deciso per l'ergastolo: la pena di morte è prevista nell'ordinamento della Repubblica democratica del Congo (sebbene mai applicata per una sorta di moratoria). E anche la stessa famiglia dell’ambasciatore, dopo la requisitoria del pubblico ministero, si era opposta, come lo Stato italiano, alla pena di morte.
«Aggiungere morte a morte non serve a nulla. Noi siamo contrari, Luca sarebbe stato contrario» aveva detto Salvatore Attanasio, il padre del diplomatico ucciso: «Siamo contro la pena di morte. Lo dice il nostro senso civico e la nostra formazione cattolica». Papà che anche ieri ha spiegato come pensi che «l’Italia debba pretendere la verità, perché Luca era il suo ambasciatore e rappresentava tutti noi. Non è solo un problema della nostra famiglia, non è un fatto di cronaca, ma un fatto politico e di Stato e lo Stato deve reagire». Ancora: «Noi aspettiamo ancora la verità, di certo non crediamo al tentato rapimento. Se sono stati loro, sono stati esecutori di un omicidio. Bisogna scavare più a fondo».
Anche Zakia Seddiki, la vedova, si è detta “sollevata” dal fatto che «giustizia è stata fatta senza spargere altro sangue, così come avrebbe voluto Luca».
Quel 22 febbraio di due anni fa, un convoglio delle Nazioni Unite partito da Goma, sulla riva settentrionale del Lago Kivu, nella regione del Nord Kivu della Repubblica democratica del Congo, fu assaltato da un gruppo di uomini armati. Due dei testimoni oculari, entrambi funzionari del Pam, facenti parte del convoglio sui cui racconti è stata ricostruita la dinamica dell’attacco, sono a oggi indagati dalla Procura di Roma per “omessa cautela”, perché non sarebbero state messe in atto le necessarie tutele per garantire l’incolumità dell’ambasciatore e del convoglio delle Nazioni unite su cui viaggiava, in un’area parzialmente sotto il controllo di ribelli e gruppi armati e lungo un percorso notoriamente pericolosi, fra una fitta vegetazione, dopo diverse precedenti imboscate proprio in quella zona e su quella strada proprio contro l'Onu.
Due anni dopo l’omicidio di Attanasio, del carabiniere Iacovacci e dell'autista Milambo, il Nord Kivu resta ad alta tensione: gli scontri tra milizie armate, bande criminali ed esercito regolare durano da ormai vent'anni, senza che la situazione sia stata cambiata nemmeno dalla presenza del contingente della Comunità degli Stati dell'Africa Orientale e con la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (Monusco).