Ad aprile le trivelle entreranno in azione cominciando a perforare il terreno nella zona attorno all’ex area industriale di Bagnoli. Obiettivo: realizzare un pozzo-pilota che raggiungerà una profondità di 500 metri. A partire dal febbraio del prossimo anno, sulla base delle esperienze e della verifiche rese possibili da questo primo impianto esplorativo, la perforazione entrerà nel vivo: dal pozzo- pilota le sonde lavoreranno con una pendenza di circa 25 gradi rispetto alla verticale, percorreranno almeno 1.500 metri fino a raggiungere il centro della caldera flegrea sotto il mare di Pozzuoli e toccheranno una profondità massima di 4mila metri, nel cuore di una struttura geologica instabile dove le temperature sono comprese tra i 500 e i 600 gradi centigradi. Gli occhi dei vulcanologi di tutto il mondo saranno puntati sull’area napoletana e su una campagna di ricerche mirata alla individuazione delle possibilità di mitigazione dei rischi vulcanici e allo studio dell’utilizzo a fini energetici del calore endogeno della Terra. Due obiettivi che da soli dicono come il gioco valga la candela. È dunque ai blocchi di partenza il Progetto Cfddp ( Campi Flegrei Deep Drilling Project) al quale aderiscono il Consorzio internazionale per le perforazioni crostali profonde (Icdp, International Continental Drilling Program), istituti di ricerca di una decina di Paesi, il nostro Cnr, alcune università italiane, la Regione Campania. Il progetto comporterà un investimento valutato tra i 12 e i 15 milioni di dollari solo per le operazioni di perforazione, ma le sue ricadute si prevedono di enorme impatto per la vulcanologia e per lo studio del sistema geotermale non soltanto flegreo. « Sarà - sottolineano alla Sezione di Napoli dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia – un esperimento unico al mondo per le difficoltà connese alla trivellazione in presenza di altissime temperature, soltanto in Islanda infatti si stanno pianificando operazioni in condizioni termiche similari». Sarà soprattutto – questo va messo in evidenza – un progetto a guida italiana, coordinato dal professor Giuseppe De Natale, con la collaborazione della dottoressa Claudia Troise, entrambi dell’Osservatorio vesuviano dell’Ingv. Grazie all’installazione nel pozzo di 4mila metri di sistemi in fibre ottiche per il monitoraggio continuo della temperatura e della deformazione delle rocce, oltre ad apparati di prelievo di acqua e gas per l’analisi delle variazioni geochimiche dei fluidi, la comunità scientifica internazionale ritiene di poter individuare la profondità alla quale è localizzato il magma ( si ipotizza a circa 7,5 chilometri sono il livello del mare) e di ottenere informazioni di enorme importanza vulcanologica non solo per la caldera flegrea ma anche per comprendere il funzionamento delle altre aree affini nel mondo, fare luce sul fenomeno del bradisismo, individuare gli eventi premonitori di una eruzione, studiare le ragioni per le quali le rocce in certe circostanze cedono plasticamente senza rompersi. Le caldere, e quella dei Campi Flegrei ne è un tipico esempio, costituiscono le zone vulcaniche potenzialmente più esplosive della Terra, suscettibili di generare eruzioni di massima energia («eruzioni ignimbritiche», le chiamano i tecnici, e sono le stesse che poi formano le depressioni calderiche) in grado di provocare catastrofi globali. Eventi statisticamente rarissimi, certo, ma dalle conseguenze più pesanti di quelle indotte dall’eruzione di un vulcano attivo, paragonabili all’impatto di un meteorite di grosse dimensioni sulla superficie del Pianeta. La comprensione dei meccanismi di genesi di queste super- eruzioni è un passaggio chiave nell’approfondimento delle tematiche connesse alla difesa dai disastri naturali. Questo vale a maggior ragione per un’area estremamente popolata come quella napoletana, al cui interno anche eruzioni di modeste entità comporterebbero rischi rilevantissimi. Il Progetto Cfddp aprirà infine interessanti prospettive di natura pratica, darà preziose informazioni sulla possibilità di sfruttamento geotermico dell’area, sicuramente una delle più « calde » del mondo. I fluidi a temperatura supercritica ( 500- 600 gradi centigradi) delle maggiori profondità potrebbero fornire energia termica con rendimenti di gran lunga superiori a quelli ricavabili delle attuali metodologie di sfruttamento della geotermia, consentendo a parità di flusso potenze di un ordine di grandezza superiore. La tecnologia a fluidi supercritici è ancora nella fase della sperimentazioni iniziale, ma le ricerche da qualche anno condotte in Islanda sono di grande interesse.