La sede di un'agenzia interinale - Imagoeconomica
Quando hai circa trent’anni e abiti in Italia, il precariato è stato senz'altro un compagno del tuo passato, probabilmente lo è del tuo presente e – se ti va male – lo sarà anche del tuo futuro. Al mondo del lavoro ci si affaccia quasi sempre con stage gratuiti o apprendistati sottopagati che diventano autostrade verso un contratto a tempo determinato rinnovato ad libitum, un lavoro autonomo per forza o per finta oppure, a chi va meglio, un posto fisso sì, ma con uno stipendio mediocre.
A chi ha la ventura di frequentare chi rappresenta questa fascia d’età, di sentire storie simili capita spesso, per l’innegabile densità di casi e anche per il principio per cui le vicende peggiori, anche nella vita reale, fanno sempre più notizia. Ed è un bene, in questo caso, perché altrimenti non ne conosceremmo molte, nascoste dagli interessati per frustrazione o pudore. Giuditta (il nome è di fantasia, come tutti quelli in questo articolo) ha 29 anni ed è un’ingegnera ambientale. Dopo la laurea ha continuato la ricerca in una famosa università del nord Italia, prima con un tirocinio di un anno (a 900 euro al mese) e poi con un dottorato (per cui la borsa di studio corrisponde a 1.200 euro netti). « In teoria – ci racconta – noi dottorandi avremmo dovuto occuparci di fare ricerca e tenere alcune ore di lezione ma la realtà è molto diversa. Spesso i dottorandi gestiscono gran parte del corso, rispondono alle mail degli studenti, programmano e fanno gli esami. Una piccola parte di questo lavoro è pagato, il resto sfora i massimali orari previsti dal contratto e quindi si fa gratis. È normale: una mia collega per oltre un anno ha dovuto dedicarsi a tempo pieno a compilare proposte per ottenere fondi europei al posto del professore e per tutto quel tempo ha dovuto sospendere la sua ricerca. Io invece ho lavorato per sei mesi su un progetto di cui era titolare un'altra ricercatrice del dipartimento, ma il pagamento è andato comunque a lei: mi dicevano che era un’opportunità ma era sfruttamento. Come quando, tra la fine del tirocinio e l’inizio del dottorato, il professore mi ha convinto a lavorare durante l'estate senza contratto, con la promessa di risarcirmi in seguito. Non sono mai stata pagata e, quando gli ho ricordato quei tre mesi in sospeso, mi ha apostrofato piccato, dicendo che alla mia generazione interessano solo i soldi, non gli ideali».
Irene invece ha 28 anni e dal Veneto si è trasferita nell’urbanizzato hinterland milanese con in tasca una laurea in architettura. Ci racconta: «Lavoro in uno studio professionale otto ore al giorno, cinque giorni su sette, ma non ho un contratto e alla fine del mese emetto fattura. Negli studi d'ingegneria e architettura, soprattutto in quelli piccoli, è la prassi: non sei assunto ma lavori come consulente pagato a ore oppure secondo un forfait mensile concordato. Io sono fortunata: le fatture vengono saldate regolarmente alla fine del mese ma conosco miei coetanei che, nonostante siano dipendenti di fatto, vengono pagati solo quando lo studio incassa dai clienti la parcella. Ma così come si fa a pagarsi un mutuo o un affitto?. Anche per chiedere malattie, ferie e permessi – continua Irene – non si sa mai come regolarsi: non essendo un diritto stabilito da un contratto, vanno concordate di volta in volta e dipendono dal buon senso e dalla disponibilità del titolare. Certo, in teoria potrei collaborare con altri studi ma nei fatti non ho tempo per farlo: persino la formazione continua e l’aggiornamento, richiesti ai liberi professionisti, li devo fare online alla sera oppure di sabato...». La situazione è simile anche nel mondo dei mestieri. «Quando si lavora a bottega – racconta un giovane artigiano – con un rapporto non di collaborazione ma di subordinazione a un titolare, ci si aspetterebbe un contratto da lavoratore dipendente. Invece non esiste: se si vuole una collaborazione in regola bisogna aprirsi la partita Iva. L’alternativa, che ho visto accettare da alcuni colleghi, è lavorare in nero».
Tra le partite Iva, naturalmente, si contano anche tanti giovani che realmente sono lavoratori autonomi. Come Simone, 29 anni, che lavora in tre studi medici come libero professionista sanitario. «Io non posso lamentarmi anche se chi mi invidia perché posso organizzarmi l’agenda non sa che non lavoro mai meno di 10 ore al giorno». La stessa cosa succede d’altronde a chi precario non è, perché ha un lavoro da dipendente a tempo indeterminato, ma deve accontentarsi di uno stipendio medio-basso e finisce così per sobbarcarsi straordinari che diventano routine. A fare la differenza nei contratti e nel guadagno pare sia da un lato la fortuna (!) e dall'altro l’ambito in cui si è specializzati, anche se la crisi costante che da anni riguarda decine di settori in Italia sembra essere soprattutto una facile giustificazione per proporre soluzioni lavorative raffazzonate che condannano i giovani ad una vita
per sempre provvisoria.