venerdì 21 marzo 2025
In occasione dei trent'anni di Libera parla il fondatore: «Gli italiani sono consapevoli dell’attività invasiva delle cosche e della corruzione ma questa consapevolezza non si trasforma in ribellione»
Don Luigi Ciotti

Don Luigi Ciotti

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Il 2025 è anno di anniversari importanti per il movimento dell’antimafia sociale: 60 anni del Gruppo Abele, 30 anni di Libera, XXX edizione della Giornata della memoria, 80 anni di don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di queste realtà.

Don Luigi, trenta anni di Libera. Quanto cose sono cambiate da quel 1995? In meglio o in peggio?

In meglio e in peggio. Da una parte ci sono i risultati raggiunti coll’impegno serrato di tantissime persone: la legge per il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie; le cooperative agricole e tante altre iniziative su quei beni, fra cui i campi di E!State Liberi! che coinvolgono ogni anno migliaia di giovani; la nascita di oltre 300 presidi territoriali e di percorsi educativi nelle scuole e nelle università; la legge sullo scambio politico-mafioso; la Giornata della memoria ufficializzata il 21 marzo e la rete sempre più vasta dei famigliari; i progetti con chi arriva da contesti criminali ma desidera spezzare quel legame: Amunì, per i giovani finiti nel circuito penale, e Liberi di scegliere, per donne e minori in fuga dalle famiglie mafiose di origine; gli strumenti per un’informazione approfondita, come la rivista Lavialibera, che raccoglie l’eredità di Narcomafie, e il nuovissimo centro di documentazione multimediale su mafie e antimafia ExtraLibera, aperto a Roma dentro un bene confiscato. Senza scordare la dimensione internazionale che ci vede oggi presenti con reti ispirate a Libera in Europa, Africa e America Latina. Ecco “il meglio”: i tasselli di un cambiamento reale, faticoso, coraggioso.

E in peggio?

Il cambiamento in peggio lo vedo invece nel tentativo di smantellare leggi preziose per individuare i “reati spia” della presenza mafiosa: l’abrogazione dell’abuso di ufficio, il depotenziamento del reato di traffico di influenze illecite la liberalizzazione del sistema degli appalti, con l’indebolimento degli strumenti a disposizione dell’Anac e della Corte dei Conti. La corruzione è la vera patologia nazionale, e se rinunciamo a combattere quella, le mafie saranno ospiti d’onore dentro qualsiasi palazzo del potere.

Siamo alla XXX edizione della Giornata. Qual è il significato di quella di oggi?

Lo stesso di sempre. Non una celebrazione, non una passerella di buoni sentimenti, ma un richiamo forte alle nostre responsabilità di cittadini. Lo diciamo da trent’anni, ripetendo i nomi delle vittime innocenti: quelle persone sono morte perché altri non sono stati abbastanza vivi. Anche da Trapani chiederemo all’Italia tutta una maggiore vitalità: più attenzione alle dinamiche che favoriscono le mafie, più coraggio nella denuncia delle zone grigie, più lungimiranza nelle politiche sociali che del crimine sono il primo anticorpo.
Dobbiamo essere più vivi, più incisivi, più concreti. Ce lo chiedono le oltre 1.100 vittime innocenti, 55 solo nella zona del trapanese. Ce lo chiedono i loro familiari. Ce lo chiedono i giovani, che sono generosi nell’impegno ma vanno aiutati a conoscere e capire, per non fermarsi a una partecipazione emotiva ed estemporanea.

Quale è stato in questi anni il valore della memoria e in particolare il ruolo dei familiari delle vittime innocenti?

Un ruolo prezioso, insostituibile. I familiari delle vittime vivono uno strazio difficile da immaginare, soprattutto quando – e accade alla maggior parte di loro – non riescono a ottenere verità e giustizia per i propri cari. Eppure, queste persone ripiegate nel lutto e bisognose di aiuto, diventano spesso capaci di offrirne a loro volta. E chi sono i primi a cui danno una mano? I carcerati. Uomini, donne e minori autori di reato che scontano una pena. Sembra incredibile ma accade: le storie di perdita e dolore, raccontate dalla viva voce di chi le ha vissute, sanno toccare il cuore di chi col crimine ha collaborato, molto più delle sentenze o delle ammonizioni. I ragazzi in particolare, quelli che hanno avuto un contatto precoce col mondo criminale, li vedi a volte trasformati da questi incontri. Nascono così storie stupende di riscatto.

Tu continui a lanciare l’allarme su una mafia sempre più forte. In cosa lo è?

Nel suo essere pervasiva, adattiva e mimetica, capace d’influenzare l’economia e la finanza grazie a doti imprenditoriali e tecnologie sempre all’avanguardia. Sopravvivono i traffici che hanno arricchito le cosche per decenni: il traffico di droga, armi, rifiuti tossici e carburanti, il contrabbando, il gioco d’azzardo illegale, il racket, la tratta di esseri umani sfruttati come veri e propri schiavi. Ma i soldi così accumulati vengono reinvestiti nei circuiti legali, spesso con piena consapevolezza da parte degli attori che mafiosi non sono.

In che modo?

Vediamo imprese criminali che agiscono stabilmente insieme a quelle lecite, diventando “fornitrici di servizi” per imprenditori senza etica. Vediamo amministratori di grandi imprese che accettano di muoversi sul filo dell’illegalità per quanto riguarda il rapporto coi lavoratori o col fisco, la gestione degli appalti e dei finanziamenti pubblici. Le mafie sono più forti perché un certo capitalismo e una certa politica si rivelano deboli di fronte alla seduzione del denaro senza limiti. La logica mafiosa è anche quella del potere quando si nasconde dietro manipolazioni e menzogne. Per questo la lotta contro le mafie va vista come un argine di umanità de erigere contro il dilagare della mafiosità e della disumanità in genere.

Parli spesso anche di “normalizzazione” delle mafie. Pensa davvero che qualcuno sia convinto di poter convivere con le mafie?

Non lo penso io, lo dicono i fatti. Gli italiani sono mediamente consapevoli della presenza invasiva delle mafie e della corruzione: ce lo confermano i dati che Libera raccoglie sulla percezione fenomeno. Ma questa consapevolezza non si trasforma in ribellione. C’è anzi un sentimento prevalente di fatalismo. Si considera il crimine organizzato come un male ormai cronico, col quale appunto è necessario convivere. Per questo abbiamo parlato spesso di crimine “normalizzato” nella coscienza dei cittadini. Le mafie non godono solo di un sostegno attivo, godono anche e soprattutto di un sostegno passivo: si rafforzano se la gente non si schiera.

E perché non si schiera?

Perché sottovaluta gli effetti dell’agire mafioso sulla sua qualità di vita: generano più allarme sociale i fenomeni di microcriminalità nei quartieri, dove le persone si sentono direttamente minacciate da ruberie su piccola scala – comunque da contrastare! – ma perdono di vista l’enorme furto di bene comune che le mafie, insieme ai poteri corrotti e agli attori economici collusi, perpetrano ogni giorno, sottraendo risorse al welfare, alla sanità, all’istruzione, alla tutela dell’ambiente ecc. Finché non ci sarà una presa di coscienza collettiva delle ricadute che la “peste” mafiosa e corruttiva ha sulle vite di tutti, il contrasto alle mafie non riuscirà a estirpare il male.

Trapani è la terra di Messina Denaro, di intrecci tra mafia, politica, economia, massoneria. Lo è ancora? E solo lì?

Questi intrecci, queste sovrapposizioni di interessi e metodi fra centri di potere legale e illegale, sono un dato di fatto non solo nei contesti locali, ma a livello nazionale e internazionale. Quando Matteo Messina Denaro è stato arrestato, al netto dell’ovvia gratitudine per il lavoro di magistrati e forze di polizia, abbiamo visto una soddisfazione del tutto esagerata. Perché non è l’arresto di un singolo boss, per quanto importante, a scalfire la rete di complicità che ha sostenuto una latitanza così lunga! Non sono gli arresti eccellenti ad arrestare l’avanzata economica e “culturale” delle mafie, guardate da molti come un modello di successo e di spregiudicatezza da imitare.

Se guarda indietro a questi 30 anni hai qualche ricordo felice?

Molti, per fortuna. Non solo quelli legati ai risultati: soddisfazioni sempre condivise col “noi” che con fatica le ha costruite. Anche momenti di intima gioia personale. Ad esempio l’ingresso mano nella mano con Papa Francesco nella chiesa di San Gregorio VII a Roma, dove ci aspettavano centinaia di familiari di vittime delle mafie. È accaduto nel marzo 2014 ed è stato solo il primo di tanti gesti di vicinanza che Francesco ha voluto regalarci nel tempo. E poi il giorno che ho accompagnato all’altare Margherita Asta, come fosse una figlia. Lei che aveva perso la mamma e i fratellini nella strage di Pizzolungo, e che dentro Libera ha trovato il modo per continuare a sentirseli vicini, attraverso l’impegno. E ancora le telefonate di una mamma che ti ringrazia, perché l’hai aiutata nel momento più difficile, quando ha deciso di scappare dalla sua città e dalla mafiosità della sua famiglia, e ora ti annuncia che una figlia ha iniziato gli studi universitari, da ragazza seria e libera.

E invece dopo 30 anni cosa ancora ti fa arrabbiare?

Mi fa arrabbiare che le mafie esistano: vederle così forti, arroganti, sicure degli appoggi di cui continuano a godere. Ma ancora di più mi fanno arrabbiare quelli che dicono: vedi, non è servito a niente. Vale per le mafie come per le ingiustizie sociali. Sono in tanti a riconoscere i problemi, molti meno a decidere di farsene carico. E qualcuno, per sentirsi assolto nella propria inerzia, se ne esce con questo disfattismo da salotto: “lo vedi, non cambia mai niente”. Non è vero! Cambiano le vite delle persone fragili e oppresse, quando incontrano qualcuno che tende loro la mano. Cambiano le decisioni pubbliche, quando in tanti si mobilitano per indicare la giusta direzione. Cambiano le sensibilità, se c’è un investimento educativo e culturale coerente. Cambiano le strade stesse, se da luogo di degrado, di criminalità e di pericolo, diventano spazio dedicato all’incontro, alla solidarietà e alla denuncia delle ingiustizie.

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