sabato 17 giugno 2023
Il fondatore del Censis: «Da impresario ha riempito un vuoto politico. Divinizzato o demonizzato, si è finito per sopravvalutarlo. Bisognava lasciarlo fare. Senza giudicarlo, come ha fatto Delpini»
 «Berlusconi, un organizzatore di emozioni sopraffatto dall'era del "Vaffa"»
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«Ha trasferito in politica le sue indubbie capacita di imprenditore, o meglio di impresario. Ma la politica è un’altra cosa». Giuseppe De Rita, è il «pezzo da novanta» che mancava nelle riflessioni postume su Silvio Berlusconi, con duplice riferimento ai suoi anni - 90 per l’appunto, portati bene - e alla straordinaria capacità che ha sempre avuto, il fondatore del Censis, di descrivere, da sociologo, i mutamenti d’epoca. Ha preferito far passare qualche giorno: «Questa “sbornia” di analisi, pagine e pagine dedicate alla sua scomparsa, le considero un po’ esagerate». Esagerata, soprattutto, giudica la tendenza a divinizzarlo o demonizzarlo: «Sarebbe stato meglio lasciarlo fare, trattando il personaggio per quello che era, un uomo che ora viene giudicato da Dio, come ha detto l’arcivescovo Delpini, e che invece abbiamo voluto giudicare noi. Imparando da lui la capacità di mettersi in relazione con tutti. Dote che anche i cattolici, in politica, sembrano aver smarrito».
Perché impresario più che imprenditore?
L’espressione non è mia. La tirò fuori De Mita dopo averlo incontrato: «Più che un imprenditore mi sembra un impresario», disse. Un organizzatore di eventi, un po’ come gli impresari dell’opera lirica dell’Ottocento. Capace di organizzare le emozioni. Lo ha fatto nel settore immobiliare, nell’emittenza televisiva, nel calcio. Abilissimo a organizzare la scena, a reclutare i tenori.
Ma per il cambio d’epoca che ha segnato è inevitabile che tutti ci abbiano fatto i conti, amici e avversari.
Vero, se ci riferiamo alla portata iconica della sua figura. Ma se ci limitiamo alla parte politica forse gli abbiamo dato un’importanza eccessiva, non a caso ai suoi funerali si notavano più le bandiere del Milan che quelle di Forza Italia.
Da politico, come lo giudica?
Dipende. Se applichiamo alla politica gli stessi criteri con cui si giudica un imprenditore della pubblicità possiamo dire che è stato un politico di successo, che ha “venduto” tanto. Ha intravisto uno spazio e ci si è buttato. Ma la politica è un fenomeno molto più complesso per essere affrontato con la logica di un impresario, fondata sulla pubblicità e lo spettacolo. E infatti ha avuto la sua parabola, in politica, come l’ha avuta nello sport, con il decennio milanista, come con le televisioni, sulle quali ha avuto un’intuizione geniale. Ha cavalcato un’epoca, quella appunto delle televisioni, soppiantata dall’avvento dell’era digitale che ha imposto nuove regole alle quali non ha voluto adeguarsi, perché poco si addicevano alla sua cultura, al suo modo di fare. Se uno ha fatto il ricercatore tutta la vita non è facile che si adegui all’intelligenza artificiale.
Chi lo ha conosciuto, e lei lo ha conosciuto, non può non riconoscergli la grande capacità di relazionarsi con tutti gli esseri umani.
È vero. Ma mentre nel mondo dello spettacolo lui ha arruolato professionisti che avevano la sua stessa capacità di rapportarsi con i singoli e con il grande pubblico (penso a Pippo Baudo, a Maurizio Costanzo, a Mike Bongiorno) in politica ha giocato sull’empatia in prima persona. Con il risultato di attirarsi grandi simpatie ma anche, fatalmente, grandi antipatie. L’empatia è un filo sottile fra due abissi in cui si rischia di cadere. Ed è accaduto che i magistrati si siano resi interpreti della diffusa antipatia che Berlusconi, al pari di quanto accaduto per Craxi, ha suscitato.
Il Berlusconi politico lo abbina all’aggettivo effimero?
Beh, la politica per quanto possa apparire uno spettacolo è, come dicevo, molto più complessa, e richiede, al di là dell’andamento altalenante del successo, un lavoro faticoso sulle istituzioni, sui corpi intermedi. Non si fa politica senza far uso di professionalità.
Ma lui detestava i professionisti della politica.
Così diceva, ma in realtà è stato anche lui un professionista della politica, senza però avere alle spalle una struttura culturale e dei collaboratori adeguati alla nuova esperienza, puntando soprattutto ad alimentare una cultura del consenso.
Anche fra i cattolici la sua figura è stata divisiva.

È stato sopravvalutato. A sentirlo parlare si coglieva tutta la distanza da una certa impostazione. I cattolici sanno di essere tutti dei poveracci. Hanno dentro di sé un senso del sacro e una consapevolezza dei del propri limiti che non appartenevano a Berlusconi. Sarebbe stato giusto farlo fare, accettare l’uomo per quello che era. Invece alcuni hanno detto:«Ma quanto è bravo, ci toglie tanta pesantezza ecclesiale di torno», altro invece lo hanno considerato un demonio. Invece bisognava fare come i suoi amici più veri, penso a Gianni Letta o Fedele Confalonieri, che non lo hanno giudicato, e non a caso la loro amicizia non è stata mai scalfita.
Però c’è da imparare da questa sua capacità di mettersi in relazione con gli uomini, che gli viene riconosciuta.
Molti cattolici non ce l’hanno o l’hanno persa progressivamente. C’è un film fantastico che lo spiega bene (“Miracolo a Milano”). Un ragazzo uscito dall’orfanotrofio saluta con un «Buongiorno!» chiunque incontra. L’Italia del dopoguerra era così, e così è stata anche l’Italia in cui Berlusconi si è affermato. Lui era così, e c’era una voglia di relazione che ha saputo interpretare. Negli ultimi 15 anni invece ha fatto fatica perché si è andata affermando un’altra cultura, figlia dell’era digitale, la cultura del “Vaffa” di Beppe Grillo.
Un cambio di epoca...
Berlusconi era un organizzatore di eventi, abbiamo detto, ma era in grado di rapportarsi con tutti, anche con il ragazzo che porta lo champagne. Pian piano invece si è andato affermando il contrario della cultura di relazione, e questo ha portato a soffrire il Berlusconi “profondo” prima ancora che il Berlusconi politico.
Ma che cosa c’è di più cattolico della cultura di relazione?
È vero. I grandi politici cattolici lo sono stati, ognuno a suo modo: Moro, De Gasperi e Fanfani. Invece siamo diventati tutti bravi a rompere, la cultura del “Vaffa” della contrapposizione, ha contagiato anche noi.
I grandi della Dc non hanno mai riunito il partito a casa loro, lo resero contendibile, accettando di esser messi in minoranza. Lui no.
Ma il personalismo della politica già c’era, veniva dagli Usa, dalla Francia. Non lo ha inventato lui, lo ha solo cavalcato. Poi lo hanno voluto imitare un po’ tutti e ora bisogna farci i conti. Si è capito che oggi per fare un partito occorre avere un leader riconosciuto e visibile.
Lei ha partecipato a tanti tentativi di ridar vita a una presenza cattolica in politica. Ma nessuno è mai decollato. Colpa del “ghe pensi mi” berlusconiano?
Veda, quando si parla della presenza dei cattolici in politica tutti ricordano il codice di Camaldoli, in cui un gruppo di intellettuali cattolici, nello spirito di Montini, diedero vita a un progetto. Ma pochi ricordano che nello stesso periodo Pio XII mobilitò i maestri cattolici e la Coldiretti per dare una mano alla Dc. Manca questo, oggi, un “sociale” organizzato, in grado di mobilitarsi.
I cattolici continuano però a essere presenti nella società.
C’è un “partito” del volontariato e del Terzo settore, ma manca un’idea di cultura collettiva, di mobilitazione, che si faccia cultura politica. Su questo bisogna lavorare, per ridare vitalità alla presenza dei cattolici. Senza dare ancora la colpa di Berlusconi.

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