Chicchi di caffè all'essiccazione, in Burundi - Florence Inyabunto
Nel Belpaese una giornata per celebrarla è superflua: per gli italiani la tazzina è già di per sé – senza bisogno di promozioni o incentivi – un rituale, uno dei pochi, popolarmente radicato e condiviso. Eppure una data per farlo esiste e cade ogni 1° ottobre con la Giornata internazionale del caffè. Da festeggiare, in realtà, quest’anno c’è ben poco: nelle ultime settimane le cronache consegnano i dati dei rincari della tazzina che per i compratori di caffè verde ha toccato i 2,64 euro per libbra, il prezzo più alto registrato negli ultimi 13 anni. Un aumento che si riverserà anche sui consumatori visto che, secondo gli esperti, i due euro per un espresso al bar stanno per essere definitivamente sdoganati.
In crisi climatica
Lungi dall’essere una questione esclusivamente economica, l’inflazione dei chicchi è legata a doppio filo alla crisi climatica. I recenti rincari, per esempio, sono causati dalla siccità e carenza di piogge in atto in Brasile; ma anche più in generale sono proprio i cambiamenti climatici a rendere la crescita dei chicchi sempre più complicata. Il caffè, infatti, un po’ come la vite, è una coltivazione estremamente delicata, suscettibile a cambi di temperatura, variazioni di altitudine ed eccesso o carenza d’acqua. In particolare, l’Arabica – che si divide il mercato insieme alla Robusta, conquistandosi per distacco il primato di varietà più aromatica – cresce solo a certe latitudini, tra i mille e i duemila metri e a una temperatura tra i 18 e i 25 gradi e basta poco per minarne lo sviluppo ottimale.
E, in questo senso, la crisi climatica per il caffè è una tempesta perfetta. Lo dicono le ricerche: uno studio dell’Università di Sydney in Australia ha stimato che entro il 2050 oltre il 75% della terra coltivabile non sarà più adatta a far crescere l’Arabica; mentre secondo il rapporto dell’Ipcc del 2023, in Africa orientale la zona di crescita del caffè dovrà certamente risalire in altitudine e, se le temperature aumenteranno tra gli 1,5 e i 2 gradi, si ridurrà del 10 o forse anche del 30 per cento.
La voce degli agricoltori
Gli agricoltori tutto ciò lo vedono in campo. «Ultimamente ci accorgiamo della maggiore frequenza della grandine che distrugge le fioriture. Sono anche aumentate le inondazioni, c’è stata erosione del suolo e le colline franano» ci spiega un agricoltore del Burundi, Paese poverissimo nel Corno d’Africa che dipende per un quarto dall’esportazione del caffè ed è al trentaduesimo posto nella lista delle nazioni più colpite dalla crisi climatica. In Africa alcuni si sono già attrezzati: contro il caldo privilegiano la coltivazione all’ombra e applicano l’intercropping con altre colture per rendere il caffè meno vulnerabile ai parassiti. Altri si sono riuniti in cooperative per fare fronte comune alle allerte meteo e scambiarsi pratiche rigenerative e sostenibili. L’obiettivo condiviso è riuscire a coltivare caffè come si è sempre fatto e venderlo ai grandi importatori occidentali. E pazienza se – come ha rilevato un rapporto dell’associazione Selina Wamucii intitolato “Misery on the farm”, – in Africa i coltivatori di caffè (e le coltivatrici, massicciamente impiegate nella filiera) sono tra le categorie di coltivatori peggio remunerate e del prezzo da noi pagato per un espresso ai produttori arrivano solo le briciole.
Le nuove norme Ue
L’Unione Europea, dal canto suo, che con il 32% delle importazioni è il maggior consumatore di caffè al mondo, da tempo ha capito che non può chiudere gli occhi di fronte alle questioni climatiche che riguardano la bevanda, seppur nasca a migliaia di chilometri da dove poi viene gustata. Spinta dall’opinione pubblica e dall’ambizione di diventare il primo continente carbon neutral entro il 2050, l’Unione dei 27 ha approvato l’Eudr, il regolamento contro la deforestazione che fra poche settimane, dopo un periodo lasciato agli attori della filiera per adeguarvisi, il 30 dicembre 2024 entrerà ufficialmente in vigore circondato da plauso e perplessità. Da un lato, infatti, il regolamento vuole assicurare che il caffè arrivato in Europa non è frutto di deforestazione ed è dunque un modo per disciplinare una filiera lunga, complessa e inquinante, frenare la crisi climatica e tutelare i diritti dei consumatori all’acquisto di prodotti trasparenti anche dal punto di vista ambientale; dall’altro sembra mancare di direzioni attuative.
L’adeguamento difficile
Lo denunciano i piccoli torrefattori, così come i grandi. Per esempio l’azienda triestina Illycaffè, che entro il 2033 vuole raggiungere la neutralità carbonica e ha una storia di attenzione alla sostenibilità, ci ha raccontato come si sta adeguando: «Sull’Eudr – spiega David Brussa, Direttore Total Quality e Sustainability – stiamo lavorando da mesi in 50 persone. Dal nostro punto di vista, quello che noi facevamo in maniera volontaria dopo l’acquisto, adesso diventa obbligatorio prima dell’acquisto. Bisogna verificare che chi vende caffè non ha tagliato alberi dal 31 dicembre 2020, che sta rispettando tutte le leggi locali e i diritti umani, che ha il diritto di uso della terra e impiega solo i prodotti chimici previsti e che il caffè non proviene da una zona soggetta a rischio deforestazione. Il problema non è completare queste operazioni ma capire come certificare il tutto. In Etiopia, per esempio, i punti GPS per localizzare i terreni non vengono rilasciati in maniera pubblica e perciò fare il mapping dalle foto satellitari diventa difficile e un importatore non può comprare caffè. Questo è molto rischioso visto che l’Etiopia esporta in Europa il 40% della propria produzione. Se i 5 milioni di produttori etiopi non riescono a vendere il caffè in Italia, non sapranno cosa fare e perderanno la loro principale fonte di sostentamento. Per non parlare degli altri produttori: il governo del Vietnam ha dichiarato a livello statale le zone deforestation free e così, visto che la politica si è messa in mezzo, ora è facile comprare da quel Paese. Paradossalmente invece il Brasile, che ha un suo sistema di catalogazione e tracciamento dei terreni da oltre 10 anni per il rispetto della Mata atlantica locale, è perplesso sul fatto che la norma sia stata imposta e non discussa precedentemente».
Le ricadute sociali
Gli importatori non sono gli unici a essere preoccupati dalla norma. «Queste misure – spiega Pasquale De Muro, professore di Economia dello sviluppo all’Università Roma 3 – possono avere ricadute sociali ed economiche sui Paesi produttori, soprattutto laddove c’è una parte di popolazione importante che si basa su queste esportazioni. Bisognerebbe dare un sostegno alle aziende agricole familiari che avranno difficoltà ad adeguarsi al regolamento e che forse non sono state pensate a sufficienza». Inoltre l’Eudr applica le stesse norme a sette materie prime molto diverse tra loro: caffè e cacao, soia e olio di palma ma anche legname, gomma e carbone. «Non si può considerare – rileva De Muro – la produzione di legname e quella del caffè allo stesso modo per quanto riguarda la deforestazione. È vero che in passato si è deforestato anche per il caffè ma ora questo fenomeno interessa più altri tipi di commodity, caso classico è l’olio di palma oppure le aree dove si fa legno. Però sia chiaro: queste limitazioni non sono una scusa per starsene con le mani in mano e il mio giudizio globale sul regolamento è positivo». Così l’Europa mostra almeno di andare nella direzione giusta in un mondo che ha sempre più sete di una bevanda che è anche questione, sociale e ambientale, scottante.
“Caffè nero bollente” è un podcast che parla di caffè e crisi climatica tra Burundi e Italia. È stato realizzato grazie al supporto di Journalismfund Europe dalle giornaliste Ilaria Beretta e Florence Inyabuntu, con il supporto dell’agronomo Parfait Nitunga. Si ascolta liberamente su Spotify e Apple Podcasts.