martedì 9 marzo 2010
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Nel corso del 2006 in Italia si è registrato un sorpasso: il numero dei veicoli a motore (dai motorini ai tir) toccava quota 50.961.543, mentre i conducenti potenziali (i maggiori di 14 anni, per capirci) erano appena 50.679.121. Più mezzi che guidatori, insomma. Per la prima volta nella storia del Paese.Dal 2006 il deficit di 282.422 conducenti potenziali non è certamente migliorato, e ormai le statistiche parlano di un parco circolante di 36 milioni di autovetture, 3 milioni di mezzi da trasporto superiori ai 15 quintali, almeno 500 mila veicoli veramente pesanti. Il resto sono moto, motorini, quadricicli. La contabilità alla fine quadra.Non tornano invece i conti della disponibilità di strade, dell’efficienza di una rete viaria modellata in gran parte su un reticolo ottocentesco (se non addirittura di epoca romana, vedi la Cassia, l’Aurelia, l’Appia) e dell’insufficienza di autostrade figlia di una scelta sbagliata degli anni Settanta. Una certa sinistra pauperista decise che le autostrade ormai erano troppe, e i governi si adeguarono. «Potenzieremo la viabilità ordinaria», dissero. Una bufala.Come bufala fu il fantomatico «piano autobus» di cui di favoleggiava all’epoca. Ora di quegli errori vediamo i risultati: strade ingolfate, al limite della praticabilità; nastri di (cattivo) asfalto sui quali la sicurezza è una chimera e l’unica certezza è l’imprevedibilità dei tempi di percorrenza, autostrade (poche) che sono piste per i tir. Si deve realizzare una nuova opera? Un solo fatto sarà indubitabile: si accumuleranno ritardi su ritardi. La classifica 2008-2009 del World Economic Forum piazza l’Italia al 59esimo posto su 131 in termini di disponibilità di infrastrutture e al 73esimo per la qualità delle stesse, mentre il governatore della Banca d’Italia sottolinea che il divario tra la nostra dotazione infrastrutturale e quella media dei Paesi Ue «è più che triplicato negli ultimi 20 anni».Nei gironi infernali del traffico attorno alle grandi città, noi che abbiamo ormai tre vetture ogni cinque residenti (per fortuna più di una per volta non possiamo guidarne) roviniamo le giornate, i nervi, la salute, il tempo libero, il portafogli. Il nodo di Genova è assediato da 250 mila veicoli al giorno. Idem per la tangenziale di Napoli. Il grande raccordo di Roma è preso d’assalto da 160 mezzi. La tangenziale di Mestre, prima del passante, da 150 mila. Numeri da incubo, realtà da paralisi. Fuori dalle tangenziali la massa di lamiere dove si riversa?«Su rotabili strutturalmente carenti per quantità e qualità», lamenta Giordano Biserni presidente dell’Asap, l’Associazione sostenitori e amici della polizia stradale. «La mancanza di alternative impedisce la fluidificazione del traffico, la minore fluidità ne aumenta la pericolosità. Così il cerchio si chiude, e non è vero che più strade richiamano più traffico. È vero il contrario, perché i flussi si diluiscono. Non oso pensare cosa accadrebbe se l’Autostrada del sole rimanesse bloccata a lungo. Avremmo un’Italia spaccata in due e conseguenze drammatiche anche per l’economia».La Fondazione Filippo Caracciolo dell’Aci snocciola in un rapporto presentato alla Conferenza del traffico dello scorso autunno dati e circostanze da brivido. O da terzo mondo, se vogliamo. Come quel cartello sulla Sorrentina, un avviso di lavori in corso esposto da 27 anni, con un tunnel di cui non si vede l’uscita anche se dall’82 sono stati spesi più di 60 milioni di euro. L’indagine conferma la ritrosia a realizzare nuove autostrade: 350 chilometri tra 1990 e il 2005, contro i 6.739 della Spagna, i 3.977 della Francia, i 1.509 della Germania. Siamo il fanalino di coda in Europa per qualità e capacità di dotazioni viarie: il Lussemburgo ci supera del 141 per cento, l’Olanda del 135, la Germania del 104, la Francia del 68. Si obietterà che parliamo dell’Europa più ricca e avanzata. È vero, vediamo allora cosa accade con la Spagna: nel 1985 la superavamo del 32 per cento, adesso Madrid ci sopravanza del 9%.È un gap che frena lo sviluppo economico, mortifica il dinamismo, compromette la crescita del sistema Italia e ci confina in una condizione di marginalità. Uscirne? Costa: per una nuova arteria bruciamo dai 10 agli 80 milioni a chilometro, mentre i francesi stanno sotto i 15 milioni. Portare da due a tre le corsie di un’autostrada ci impone un vero salasso, se ne vanno tra i 5 e i 20 milioni a chilometro. I nostri cugini se la cavano al massimo con 4. Se poi le cose vanno male, cioè ci si mette di mezzo un contenzioso, gli importi lievitano di un terzo e i tempi di consegna del 96 per cento. Un bel raddoppio.Scontato, quindi, il bisogno famelico di soldi. Secondo la Fondazione Caracciolo il piano di infrastrutture varato dal Cipe richiede (con questi chiari di luna!) risorse per 50 miliardi di euro, ma il 43 per cento delle opere strategiche – non solo stradali – risulta senza copertura e solo il 3,6 per cento dei lavori previsti nel 2001 è stato completato.Non male per un Paese che muove su gomma, vale a dire su strada, il 90,5 per cento delle merci e tollera che la congestione del traffico dovuta al deficit di vie di trasporto costi alle imprese 7 miliardi e mezzo. «Soffriamo di un handicap gravissimo imputabile alla costante carenza di risorse, alla farraginosità delle procedure amministrative, ai continui «salti» di strategie politiche. Il deficit infrastrutturale ostacola l’integrazione tra le modalità di trasporto e compromette il turismo, una delle maggiori risorse nazionali», denuncia Enrico Gelpi, presidente dell’Automobile Club d’Italia.Chi alzasse la spalle dicendo: «È la solita lobby dell’auto», dovrebbe meditare. Senza l’auto centinaia di migliaia di italiani non potrebbero andare al lavoro. Quanto agli stranieri, il 62 per cento arriva in automobile e tre italiani su quattro scelgono (o sono costretti a scegliere) le quattro ruote per il weekend o la vacanza. Perché Gelpi ha ragione: «Per raggiungere la Costiera amalfitana o Riva del Garda non si riesce a fare a meno dell’auto». Ingorghi permettendolo. Nessuno, infine, vorrebbe trovarsi nei panni di un livornese intenzionato a recarsi ad Ancona. O di un cuneese chiamato improvvisamente a Sondrio.
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