Zingaretti e Di Maio a un convegno di diversi mesi fa
M5s e Pd così vicini eppure così lontani. M5s e Lega così lontani eppure così vicini. Si potrebbe riassumere così la scena della crisi di governo che reggerà almeno sino a martedì, quando poi occorrerà giocoforza imprimere un'accelerazione e arrivare a un punto definitivo perché il cronometro di Mattarella si fermerà irrevocabilmente.
Il doppio forno ha temperature diverse
Il doppio forno è acceso e su questo non ci piove. E' vero che M5s ha assicurato che in questo momento l'unico dialogo in corso è quello con il Pd. Ma evidentemente Zingaretti, dopo aver guardato Di Maio negli occhi, non ne è affatto convinto. Altrimenti il segretario dem non avrebbe sentito la necessità di chiedere «rispetto reciproco» al contraente pentastellato. Altrimenti lo stato maggiore dem non avrebbe sentito la necessità di chiedere a M5s di comunicare ufficialmente al Colle che esiste un'unica trattativa in corso per il governo.
Di certo, però, i due forni hanno temperature diverse: quello M5s-Pd è più caldo, sebbene lontano, molto lontano, dal punto di cottura. Il forno M5s-Lega ora emana una fiamma debole, ma il lungo rodaggio fa pensare che basterebbero pochi pezzi di legno per salire al massimo.
Quello che i leader non dicono (per "colpa" dei gruppi, di Renzi e Salvini)
A svariati giorni dall'inizio della crisi, nessuno è in grado di dire con certezza quale sia l'autentico intento dei tre leader, Zingaretti, Di Maio e Salvini. Il segretario dem negozia con i piedi di piombo, fissa principi ardui per M5s, chiede "abiure" programmatiche, dice «no» a Conte. E fa sorgere la domanda: vuole un governo? O vuole andare al voto? O, forse, vuole spingere di nuovo Di Maio tra le braccia di Salvini, di modo da ottenere due piccioni con una fava: non destabilizzare i gruppi parlamentari - che non vogliono lo scioglimento delle Camere - ed evitare di fare la manovra al posto dei gialloverdi. E' risaputo che Renzi stia meditando la creazione di un suo partito e che chiede di andare avanti con la legislatura anche per darsi il tempo di organizzarlo: Zingaretti, andando in maggioranza con M5s, teme di "dargli una mano" e di rimetterlo al centro della scena. Allo stesso tempo, però, uomini vicini al segretario lo descrivono molto meno freddo rispetto a qualche giorno fa rispetto all'ipotesi di un esecutivo. Insomma, un enigma.
Di Maio forse ha un compito più facile: i gruppi M5s sono divisi quasi perfettamente a metà tra chi vuole la Lega e chi vuole il Pd. Ma sono uniti in un mandato chiaro: vogliono un governo e sono pronti a votarlo, punto e basta. Motivo per cui sinora lui non è mai uscito alla scoperto. Prima di iniziare a parlare con il Pd, ha avuto la conferma che la Lega manterrà la sua proposta di tornare insieme. Per restare alla metafora dei due forni, Di Maio sta scaldando quello del Pd ma si guarda bene dal chiudere definitivamente quello con la Lega. Con il dubbio, però, che nel momento in cui si chiudesse il forno con il Pd, Salvini farebbe un po' di "balletti" e poi comunque spingerebbe il Paese verso il voto, riuscendo nel delitto perfetto: lasciare il governo, sventare l'esecutivo Di Maio-Pd e andare alle urne dopo aver dimostrato al Paese che lui no, proprio non voleva. Agata Christie non avrebbe potuto scrivere scenaggiatura più efficace.
Salvini va via riassorbendo lo choc per il piano non riuscito: la crisi-lampo è fallita e non se lo aspettava. "Colpa" soprattutto di Renzi, che ha rimesso il Pd in gioco mentre Zingaretti era ancora ancorato alla linea delle elezioni anticipate. Ora la sua linea è ancora ondivaga ma almeno ha ritrovato un punto di minimo equilibrio: lui lascerà le porte aperte a M5s sino all'ultimo secondo, di modo che se fallisce il negoziato M5s-Pd dovrà essere il Movimento a dire "no" a proseguire la legislatura; diversamente, si andrà al voto, il suo scopo originario; terza opzione, la meno gradita ovviamente ma anche questa con una certa dose di comfort, fare opposizione in vista di una manovra che si annuncia molto difficile per chi vi metterà mano. E che lui potrà bombardare dall'esterno.
Ma sui contenuti si procede
Dopo l'incontro tra i capigruppo, nei prossimi giorni Pd e M5s continuano a lavorare autonomamente sui punti del programma. Lunedì ci dovrebbe essere un incontro ampio che comprende anche i capigruppo delle Commissioni parlamentari per andare più in profondità. Martedì, quando inizieranno le seconde consultazioni al Colle, il Pd avrà la Direzione mentre M5s potrebbe mettere il nuovo accordo ai voti su Rousseau.
Conte è davvero il pomo della discordia?
Dai racconti della cena Zingaretti-Di Maio è venuto fuori che il tema principale di discordia è il ruolo di Conte. M5s vorrebbe il premier uscente a capo del nuovo esecutivo. Il segretario dem avrebbe ribadito il suo rifiuto chiedendo ancora una volta «discontinuità». Le letture sono varie: secondo il Pd, è Di Maio che vuole "bruciare" Conte o che vuole tenere la posta alta per avere la scusa buona per tornare con la Lega. Secondo M5s, è Zingaretti che mantiene un veto per costringerli a trattare ancora con il Carroccio o perché vuole le urne. Intanto Renzi e i renziani fanno sapere che il veto su Conte è una scelta univoca del segretario, e che loro non sono d'accordo. Mentre il premier uscente è al G7 in Francia dove raccoglie il plauso europeo e internazionale. Dal G7 è atteso anche un intervento di Conte: se avesse ulteriori punti di discontinuità rispetto al governo gialloverde rispetto a quelli elencati al Senato martedì scorso, potrebbe essere la prova che davvero M5s vuole fare un governo con il Pd. Ma basterebbe a rimettere in gioco il premier uscente? Forse no, forse su questo punto Zingaretti è andato molto avanti e non può tornare indietro. Se il veto dem non viene rimosso, il segno di volontà di M5s dovrà essere quello di indicare un'altra figura per il premier. E non può essere nemmeno Di Maio.
Previsione impossibile ma strade obbligate
Dare una previsione sull'esito finale è molto difficile. L'unica certezza è che il negoziato Di Maio-Zingaretti è realmente in piedi e che entrambi, volenti o nolenti, lo porteranno sino in fondo. Il segretario dem non può sostenere l'accusa di buona parte del suo partito di aver "consegnato il Paese a Salvini" solo per comporre gruppi parlamentari a lui più fedeli. Di Maio ha troppi motivi per temere che Salvini gli stia tendendo altre trappole dopo quella agostana. Ma che ci sia un approdo positivo e che non si voti a novembre è tutto ancora da vedere.