La sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale ha aperto uno squarcio nel nostro ordinamento. Le condizioni sono numerose e stringenti, e in più – in ogni singolo caso – devono intervenire simultaneamente. Sul lato pratico, dunque, l’aiuto al suicidio continuerà a essere reato nella quasi totalità dei casi, anche in situazioni cliniche ormai compromesse. Con la sola eccezione di situazioni in cui ricorrono contemporaneamente le seguenti circostanze.
1. Patologia irreversibile;
2. Cure palliative;
3. Assistenza psicologica;
4. Intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche.
5. Trattamenti di sostegno vitale;
6. Capacità di prendere decisioni libere e consapevoli;
7. Parere del Comitato etico;
8. Competenza del servizio sanitario nazionale;
9. Medico disponibile;
10. «Condizioni equivalenti».
Finora, i paletti posti dalla Consulta sono assolutamente tassativi: basta che uno di essi non sia presente così come dettagliatamente previsto dalla Corte, e il medico che ha collaborato al suicidio di un suo paziente viene condannato così come è sempre finora avvenuto. L’intera pronuncia della Consulta è permeata dalla preoccupazione di tutelare il «diritto alla vita – così si legge – soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio».