Ha aperto una casa dopo l’altra, tutte rigorosamente con la porta aperta per accogliere storie di sofferenza, speranza e condivisione. E anche se oggi "Mondo di comunità e famiglia" (Mcf) conta una trentina di esperienze in tutta Italia, il suo fondatore, Bruno Volpi, non ha intenzione di tirare i remi in barca: «Sarò pure invecchiato – racconta – ma non smetterò mai di andare in giro a parlare di famiglia».
Quella che la settimana sociale indica come «speranza e futuro per la società italiana»...È uno splendido tema, una bella scommessa. Nel nostro piccolo, una cosa l’abbiamo capita: la famiglia, se resta isolata, può essere molto fragile. Sin dall’inizio, sentivamo il bisogno di non restare soli. La nostra risposta si chiama alleanza. Tra famiglie, con persone che non abbiamo scelto e che magari non ci vanno a genio, ma che la Provvidenza ci ha mandato.
E ha funzionato?La scoperta è che una comunità diventa uno strumento formidabile di sostegno reciproco. Se vado in crisi – e prima o poi capiterà – c’è sempre qualcuno pronto a sorreggermi.
Oppure ad approfittare delle mie debolezze. Il rischio non è troppo alto? E non si può passare per ingenui?Ogni giorno me lo chiedo anch’io. Esposi i miei dubbi anche al cardinale Carlo Maria Martini. Lui mi rispose secco: l’associazione deve continuare a dare la possibilità di vivere questa esperienza di condivisione. Un anno prima di morire, fu a cena da noi. Disse: «Mi piacete, andate avanti».
A questo punto, impossibile fermarsi...Sì. Ma non senza preoccupazioni. Giovanni Paolo II ripeteva: «Famiglia salva te stessa e salva la Chiesa». Conoscendo le mie fragilità, mi chiedevo: ma come è possibile tutto questo?
Come è possibile?Condividere le proprie fragilità significa anche recuperare assieme le forze.
Oggi come nel 1973, quando ebbe inizio l’esperienza di "Mondo di comunità e famiglia"?All’epoca cercavamo un modo diverso di stare al mondo ma vedevamo il benessere all’orizzonte. Oggi che queste certezze sono venute meno, dovrebbe essere più facile ricercare un’alleanza, un nuovo modo di stare nella società. Ma sembra che, senza voler generalizzare, si tenda ad aspettare che qualcuno risolva i problemi. Si è combattuti tra la paura del «si salvi chi può» e il desiderio di costruire qualcosa assieme. E spesso, purtroppo, si segue la prima strada.
Cosa si deve fare per valorizzare questa «speranza e futuro per la società»?Mettere davvero in pratica l’articolo 4 della Costituzione italiana, secondo cui ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità, una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Ciascuno deve sentirsi un valore aggiunto per il proprio territorio.
La risposta a questo bisogno di progresso l’avete trovata nelle comunità?Come non abbiamo inventato la bici, ma sappiamo pedalare, le dico: il senso di solidarietà non è stato creato da noi, esiste da sempre. È su questo che si basa l’idea delle nostre famiglie di stringere un patto: anche economico, certo.
E chi garantisce che questo non possa creare attriti all’interno delle comunità? Per essere concreti: e se una delle famiglie attingesse un po’ troppo dalla cassa comune?È inevitabile che si debbano affrontare situazioni come questa. Problemi e incomprensioni continueranno ad esserci. D’altra parte, siamo figli di una società che dice: «Non fidarsi è meglio». La nostra associazione, al contrario, vuole essere un ombrello sotto il quale c’è la voglia di stare insieme.
Chi sono le famiglie tipo che aderiscono al progetto?Generalmente coppie con alle spalle già alcuni anni di matrimonio, e magari qualche figlio piccolo, che sentono il bisogno di stare in una dimensione più grande.
Quindi la presenza dei figli non frena la decisione di cambiare vita in modo così radicale?Io dico sempre ai giovani: sbagliate a non muovervi a causa dei figli. Se ve la sentite, se siete convinti, partite con loro. Vedrete: vi seguiranno.
Qual è il ruolo dei sacerdoti gesuiti nelle comunità?Nessuno, e non sono presenti in tutte le strutture. Sono compagni di strada che danno un senso alla loro vocazione, come noi.
Una vocazione, in tempi di crisi, destinata ad aprirsi anche alle famiglie che non ce la fanno più?Ciascuna comunità può sapere se è nelle condizioni di poter «tirare dentro» qualcuno che è sulla strada. Ma quella è la conseguenza del desiderio di rendere grande la propria vita.
Trenta e oltre comunità in tutta Italia. Fino a dove arriverete?Dipende da noi. Se dubitiamo di poter avere fiducia nell’altro, possiamo fallire anche domani.