Giuseppe Miele davanti all’effigie che ricorda suo fratello Pasquale
Giuseppe Miele aspetta ancora giustizia per la morte del fratello Pasquale, ucciso dalla camorra trenta anni fa. Ma non ha atteso per perdonare gli assassini del fratello. «Mi ha aiutato il mio cammino di fede», spiega in occasione dell’incontro con le scuole organizzato per ricordare quel drammatico giorno. E racconta come quel perdono lo porta anche in carcere, incontrando tanti detenuti di Secondigliano, camorristi compresi. «Lo faccio per mio fratello. Così Pasquale è ancora vivo, malgrado quel terribile giorno».
Era il 6 novembre 1999. Una notte di tempesta a Grumo Nevano, paesone a nord di Napoli. Pioggia, vento, tuoni. La famiglia Miele, piccoli imprenditori tessili, raccolta davanti al televisore, non si accorge di un rumore diverso. Ma più tardi vedono a terra i vetri rotti di una finestra. Pasquale si avvicina. Un secondo colpo risuona nella notte. E un pallettone partito da un fucile a canne mozze lo colpisce al collo. Per il giovane non c’è niente da fare. Muore dissanguato in pochi minuti. Ucciso per aver detto 'no' alle violente pretese del clan. Muore davanti ai genitori.
Aveva appena 27 anni, era fidanzato, il matrimonio già fissato per sette mesi dopo. Vittima innocente delle mafie, uno dei più di mille nomi che ogni 21 marzo vengono letti in tante piazze italiane in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno, promossa da Libera. Per il 75 per cento di loro non si è avuto verità e giustizia, come ha nuovamente denunciato don Luigi Ciotti, nell’incontro con le scuole. E lo è stato anche per Pasquale. Processualmente non sono stati identificati né gli esecutori né i mandanti. «Nessuno ci è venuto a dire cosa sia successo quella notte. Chi ha sparato. Chi lo ha mandato. Si sono incolpati l’un l’altro, e così i colpevoli non sono stati individuati. Nessuno. Così l’omicidio di mio fratello è stato messo in disparte, dimenticato». Ma Pasquale non può, non deve essere una 'vittima di serie B'. Così Giuseppe, fratello maggiore (allora aveva 29 anni), si è impegnato a tenere viva la memoria.
«Vado nelle scuole, incontro tanti giovani, per raccontare la storia di un giovane come loro ». Organizza incontri, manifestazioni, corse podistiche, biciclettate, per non far dimenticare il nome del fratello. Sempre presente alle iniziative del coordinamento regionale di Libera memoria, che unisce tanti familiari delle vittime innocenti della camorra. E lo fa anche in carcere. Andando a parlare di perdono, «come ho fatto in tribunale, quando per la prima volta sono stato chiamato a testimoniare ». Poi nel 1995, appena sette anni dopo la violenta morte del fratello più piccolo, inizia l’impegno tra i detenuti. «All’interno del cammino neocatecumenale, ho accettato l’invito del cappellano di Secondigliano a fare catechesi ai detenuti. Prima in infermeria, poi nei vari padiglioni, anche tra i camorristi».
All’inizio non è stato facile. «Facevamo la catechesi sul perdono ma non erano molto attenti. Allora il cappellano mi ha chiesto di raccontare la storia di mio fratello. Non si sentiva volare una mosca ». I detenuti ascoltavano con attenzione quel giovane che ricordava la morte violenta del fratello ma che parlava di perdono. E quelle parole lasciavano il segno. Anche nei boss. «Alla fine un capo zona si fermò e mi disse: 'Speriamo che prima di uscire il Signore mi faccia capire cosa devo fare'. Lui avrebbe voluto vendicarsi dell’uccisione di un familiare, ma il mio racconto del perdono, malgrado la morte di Pasquale, aveva messo in dubbio le sue certezze. 'Vieni proprio qui da noi a parlare di perdono...', mi disse ».
Quegli incontri, quelle parole di Giuseppe, quel suo perdonare avevano rivoltato le vite dei camorristi. Ma Giuseppe sa di non essere solo. «Siamo in tanti familiari di vittime innocenti a impegnarci nelle carceri. Noi gettiamo solo il seme, poi è il Signore a fare il raccolto».
Non si sente un eroe, né un primo della classe. Come tanti familiari di vittime innocenti, non cerca le luci dei riflettori. Una vita semplice, modesta, la moglie sempre al suo fianco, cinque figli, uno porta il nome di Pasquale. Mi accolgono e raccontano una vita dura, non facile, con la camorra tornata a chiedere il pizzo anche venti anni dopo, non sazia di quella morte. Ma anche questa volta hanno trovato una netta risposta di rifiuto, come allora. È quello che Giuseppe va a raccontare, perdono e giustizia. «Questo mi aiuta. Se non avessi fatto tutto questo non so cosa avrei fatto della mia vita. E tutto questo rende mio fratello ancora vivo. Ma almeno fatemi sapere chi lo ha ucciso. Penso sia un nostro diritto. L’ho già perdonato».