Il leader del movimento palestinese Hamas, Ismail Haniyeh, durante un incontro con la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei - ANSA
In cuor suo Ismail Haniyeh se l’aspettava. Sapeva di essere un bersaglio vivente e sapeva che i vertici dell’Idf e lo stesso Benjamin Netanyahu non avrebbero mai consentito che il capo politico di Hamas concludesse i suoi giorni nell’esilio dorato di Doha o di Teheran senza pagare il prezzo delle proprie responsabilità.
Nato 61 anni fa nel campo profughi di Al-Shati a Gaza all’epoca dell’occupazione egiziana della Striscia, laurea presso l’Università Islamica, sposato con tredici figli, Haniyeh è – o meglio: era – figura controversa anche all’interno di Hamas. Allievo prediletto dello sceicco Yasin, fondatore del movimento, figura radicale della fazione politica che si opponeva a Fatah e ad Arafat rivendicando come unica ragione sociale la distruzione dell’«Entità sionista» (così la mezzaluna sciita che da Teheran porta fino allo Yemen e al Bahrein passando per il Libano degli Hezbollah e del Partito di Dio dello sceicco Nasrallah), Haniyeh ha conosciuto tutto ciò che gli occorreva per coronare la sua figura di un’intoccabile allure venata di martirio: dalla prigionia nelle carceri israeliane all’abiura inflittagli da Abu Mazen, fino alla presa di potere nella Striscia e alla guida politica all’interno di una Hamas sempre più radicalizzata e sempre meno aderente alla realtà, tanto da trasformarsi in un vicereame il cui potere assoluto si basava proprio sul fatto che la Striscia era diventata una zolla impenetrabile.
Uomo scaltro quanto ambiguo, Haniyeh è riuscito a mettere in sordina il proprio esilio negli agi del Qatar mentre migliaia dei suoi venivano falciati e bombardati dalle incursioni di Israele. Dei suoi stessi tre figli, rimasti uccisi nella lunga rappresaglia israeliana, menava vanto, dichiarandosi onorato di quelle morti, che offriva simbolicamente al buio disegno del suo dio.
Avvicinato da chi scrive una quindicina di anni fa, durante una delle tante guerre di Gaza, alla domanda «Verrà mai a patti con Israele?», rispose fiero: «Mai». Tuttavia, negli ultimi mesi, nel suo pensiero si era insinuato un pragmatismo un tempo a lui sconosciuto, levigando per quanto possibile quell’intransigenza giacobina trasmessagli a suo tempo dal presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, di cui aveva a lungo subito l’influenza. Ora l’incorruttibile (si fa per dire) Haniyeh era incline a un compromesso con Israele, a un cessate il fuoco e poi a una tregua concordata per garantirgli ritorno a Gaza come Leader. Una visione del tutto opposta a quella di Yahya Sinwar, suo coetaneo e leader combattente che si muove tuttora nelle viscere malsane e asfittiche della Striscia ed è stato l’ideatore e l’organizzatore del raid del 7 ottobre scorso. Irriducibile, Sinwar proclama una guerra totale e innegoziabile con il nemico israeliano. Insieme a Haniyeh, è stato indiziato dalla Corte penale internazionale come responsabile di crimini di guerra (in compagnia di Netanyahu e di Yoav Gallant).
Teheran gli aveva offerto un posto in prima fila per celebrare l’insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian. Mentre si intratteneva con la Guida Suprema Khamenei, Haniyeh era già nel mirino del missile teleguidato che l’avrebbe ucciso nella notte tra martedì e ieri. La stessa fine toccata al suo maestro Yasim, colpito dall’alto da un elicottero israeliano vent’anni fa, dopo una vita di agguati, attentatiti, prediche di morte e di distruzione, figlie di un fanatismo e di un conflitto fra due popoli che appare ogni giorno sempre più insanabile.