giovedì 22 agosto 2024
Costretti a star chini sui campi dall’alba a dopo il calar del sole - d’estate fino a 17 ore al giorno - e per dormire una branda in un capanno. Succede nelle campagne del Lodigiano
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Costretti a star chini sui campi dall’alba a dopo calar del sole - d’estate sono sedici ore di luce al giorno, loro ne lavoravano fino a diciassette -, e per dormire una branda in un capanno, stipati nei loro giacigli come bestiame nella stalla. Succede nelle campagne del Lodigiano, a una ventina di chilometri da Milano. Dove magari, al posto dei pomodori, si coltivano di più cavoli e patate; come cereali ci sono il mais per il foraggio e il riso molto più che il grano. Cambiano le coltivazioni, ma per il resto il sistema di sfruttamento riscontrato nell’azienda agricola della pianura Padana è lo stesso; medesima è la manodopera di sfruttati (immigrati) che lavora in tutti i terreni di tutte le regioni d’Italia.

L’inchiesta dei militari del Comando provinciale di Lodi della guardia di Finanza ha portato alla scoperta di un sistema di sfruttamento di oltre un migliaio di braccianti impiegati nella raccolta di frutta e verdura. Ai lavoratori, tutti provenienti da paesi di Africa e Asia, venivano imposti turni di lavoro che arrivavano, durante il periodo della raccolta delle messi e degli ortaggi, fino a 512 ore mensili (17 ore al giorno appunto), senza ferie né permessi o riposi, contro le 169 previste dal contratto nazionale di lavoro di categoria, e dichiarate all’Inps.

Secondo le indagini, l’imprenditore agricolo titolare dell’azienda faceva leva sullo stato di necessità dei lavoratori, a molti dei quali venivano fornite «soluzioni alloggiative precarie, degradanti e sovraffollate», ovvero in capanni, prefabbricati e altri ricoveri di fortuna nei campi in cui lavoravano. Per il posto letto e le utenze pagavano una quota, che veniva loro detratta dal misero stipendio che ricevevano.

Le pm Giulia Aragno e Aurora Stasi, titolari delle indagini, insieme al procuratore di Lodi Maurizio Romanelli hanno contestato al titolare dell’azienda agricola, le accuse di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro. La guardia di finanza ha eseguito l’ordinanza di misura cautelare nei confronti del rappresentante legale dell’azienda agricola nel lodigiano, vietandogli di esercitare l'attività imprenditoriale per un anno per sfruttamento della manodopera. La misura è stata presa dal gip di Lodi, Lo ha deciso il giudice per le indagini preliminari nell’ambito dell’operazione (che è stata battezzata «Agros»), volta non solo a combattere il caporalato in quanto fenomeno che penalizza i lavoratori, mettendone a rischio la salute, e l’equità sociale. Ma anche nei termini di un grave ostacolo allo sviluppo economico e di una turbativa alla concorrenza. Le indagini del comando provinciale della gdf diretto dal colonnello Piergiorgio Samaja, sono iniziate su segnalazione dell’Inps, e sono state fatte attraverso una serie di interviste fatte sul campo agli stessi lavoratori, con l’obiettivo di verificare la loro posizione reale rispetto a quella «cartolare». Interviste che hanno evidenziato grosse differenze da quanto dichiarato dall’impresa. Gli investigatori sono quindi andati a ritroso fino al 2017, fin dove cioè si poteva indagare, secondo i termini previsti per legge.

Questa eccedenza di ore di lavoro, non dichiarata ai competenti uffici finanziari e previdenziali, ha riguardato in sette anni, 1.054 posizioni lavorative irregolari, con un’evasione contributiva e fiscale stimata in circa 3 milioni di euro. Gli accertamenti delle fiamme gialle sono tuttora in corso per quantificare l’evasione fiscale.

I controlli anti-caporalato dei carabinieri del nucleo presso l'ispettorato del lavoro effettuati appena 24 ore prima, mercoledì, hanno invece portato ad altre 13 denunce nelle campagne livornesi, tra Piombino e a Campiglia Marittima. Quattro in particolare i titolari di tre aziende agricole denunciati. Due imprenditori non avrebbero sottoposto alla visita medica per l’assunzione il personale. A uno è stata anche fatta la sanzione per omessa formazione del personale in materia di salute e sicurezza sul lavoro, mentre, a carico dell’altro titolare di azienda è stata elevata una sanzione anche per omessa redazione del documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute per prevenire e mitigare eventuali infortuni. Undici invece le denunce fatte in particolare in una sola delle tre aziende trovate non in regola dai carabinieri, con altrettanti indagati a vario titolo.

Fra i denunciati l'amministratrice unica ed il socio amministratore, entrambi nordafricani accusati di aver impiegato undici lavoratori «in nero» e sospesi dall'attività imprenditoriale.

A Bologna e Ferrara invece il fenomeno del caporalato è stato riscontrato anche nel reclutamento delle badanti, agganciate sui social con contratti non registrati, senza nessuna tutela e copertura assicurativa, e costrette a lavorare con turni massacranti, fino a 24 ore al giorno. Badanti che dovevano inoltre sborsare, per ottenere il servizio richiesto, la somma di 3.400 euro con bonifici su un conto corrente intestato a un’associazione. Tre gli arresti ieri per associazione per delinquere finalizzata all’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (il reato di caporalato) ed alle truffe aggravate. L’indagine, coordinata dal pm Stefano Dambruoso ( gip Maria Cristina Sarli del Tribunale di Bologna) , è partita da una denuncia ai carabinieri da una donna che, costretta ad assistere un anziano congiunto, si era rivolta all’associazione gestita dagli odierni arrestati.

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