martedì 20 aprile 2010
«Se avessimo ceduto saremmo state vittime per tutta la vita», dicono, spronando anche altri imprenditori a ribellarsi alla prepotenza delle cosche che controllano il territorio campano.
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«Ne valeva la pena? Sicuramente sì. La privazione della libertà per chi vive con la scorta è certo un’oppressione. Però ora abbiamo riacquistato la nostra vera libertà, di uomini e di imprenditori. Viviamo la nostra scelta come una forma di riscatto». Francesco Piccolo e Raffaele Cantile sono due trentenni imprenditori edili, soci e amici. Ma sono soprattutto i primi, e purtroppo per ora gli unici, ad aver denunciato le pretese estorsive di Michele Zagaria, il superlatitante (ricercato da 16 anni) boss del clan dei Casalesi. Il vero capo di questa camorra imprenditoriale. «L’intoccabile», lo definiscono. Non era mai successo nel loro paese, Casapesenna, regno di Zagaria, dove nessuno parla e non si fa neanche il nome del boss. Ci si limita a dire “iss’” (lui) o “lo zio”, e tutti capiscono. La loro denuncia, invece, ha portato in carcere due settimane fa il padre e un fratello di Zagaria, oltre ad altri 14 esponenti del clan. Ora nella piazza del paese li definiscono «infami» o «uomini di m...». Ma loro non hanno niente da recriminare. «Bisogna avere il coraggio di cambiare. Certo la strada è lunga ma noi abbiamo cominciato. Se non cambiamo noi della nostra generazione non possiamo pretendere che lo facciano altri». Dopo gli arresti eccellenti non possono più tornare a Casapesenna. E anche il resto della famiglia è stata costretta a raggiungere Modena, dove da anni i due vivono e hanno i principali affari. Già perchè questa bella storia di riscatto è anche la conferma di come le mafie siano ormai ben stabili anche al Nord. E l’asse Casapesenna-Modena è tra i più ricchi.La storia di Francesco e Raffaele comincia nel 1995. Nessun problema perché «la camorra non se la prende coi piccoli, non ci guadagnerebbe abbastanza». Poi arrivano i primi lavori fuori regione, in Umbria e nelle Marche, ma è nel Modenese che gli affari fanno il salto di qualità, fino ad aprire un ufficio a Nonantola. E arriva la “bussatina”. In cantiere si presenta Antonio Corvino, detto “bacchettone”, di Casal di Principe. «Vengo a nome di quelli di Casale» annunciò. E chiese 50 milioni di lire. I due imprenditori lo conoscevano, avevano frequentato la stessa scuola. «Gli dicemmo che non potevamo pagare. Lui rispose secco: “Ma avete capito o no?” Gli abbiamo risposto che casomai avremmo dovuto parlare con quelli di Casapesenna. Sapevamo che si agiva così». A questo punto i due amici tornano in paese e contattano Carmine Zagaria, fratello del boss per spiegargli la richiesta. «Ci rispose che non dovevamo preoccuparci. “Date 5 milioni e siete a posto”». E così fanno. «Ci sentivamo umiliati ma non potevamo fare altro. Senti un grande vuoto attorno a te. Non sai se fai la cosa giusta. Hai un senso di impotenza. Se non pago, la giustizia poi mi protegge? Oggi ci siamo ricreduti». Anche perchè, malgrado quel pagamento, nel 2003 una bomba distrugge l’ufficio di Nonantola. Poi, però, per quattro anni nessuno si fa avanti. Fin quando sono proprio gli uomini di Zagaria a intervenire. Questa volta le minacce sono molto serie. «Eravamo arrivati al limite». Così si rivolgono alla Squadra mobile di Modena. «Abbiamo capito che ci potevamo fidare. Così abbiamo deciso di parlare. Quando siamo usciti ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che stavamo facendo la cosa giusta, per noi e per gli altri». Ma iniziano altri problemi, con le banche che stringono la borsa. E le istituzioni modenesi che li considerano quasi alla stregua di camorristi. Al loro fianco la Federazione antiracket di Tano Grasso che li sostiene e che ieri, in occasione del ventennale, li ha additati ad esempio. E poi, dopo qualche resistenza, anche Confindustria, alla quale sono iscritti, e l’Ance. Ora sanno di essere a rischio ma non tornano indietro. «Eravamo coscienti di chi andavamo a denunciare. Ma forse proprio per questo lo abbiamo fatto. Sapevamo che se avessimo ceduto avrebbero chiesto altro, saremmo stati vittime a vita».
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