giovedì 30 maggio 2013
Le vendite volano a +25%: «Pazienti più consapevoli». La norma voluta dal governo Monti ad agosto e che obbliga i medici a indicare il principio attivo sulla ricetta ha sortito l’effetto sperato. Ma è polemica per la penalizzazione delle aziende produttrici “storiche” e per la confusione tra gli over 65.
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Incertezze e pregiudizi? Roba d’altri tempi. La crisi economica alla fine ha fatto capolino anche in farmacia e gli italiani, seppur recalcitranti fino a qualche mese fa, hanno deciso: basta con le affezionate “griffe” e largo ai generici. Che – sulla carta almeno – a parità di principio attivo costano meno.Indicarlo sulle ricette mediche, certo, ha contribuito in maniera decisiva alla diffusione della moda: la norma che ne prevede l’obbligo è entrata in vigore ad agosto scorso stabilendo che il medico che curi un paziente per una patologia per il cui trattamento sono disponibili più medicinali equivalenti indichi nella ricetta del Servizio sanitario nazionale la denominazione del principio attivo contenuto nel farmaco. Risultato: da settembre a marzo scorso si è registrato un vero e proprio boom dei generici, con un aumento di circa il 25% delle confezioni vendute e punte record del 36%, come in Calabria.I dati di Assogenerici parlano chiaro e mostrano un quadro che sembra aver prodotto l’effetto sperato dal governo Monti: l’aumento del consumo del farmaco equivalente anche in Italia, da sempre fanalino di coda in Europa. Nel periodo preso in esame, la crescita delle vendite dei generici, anche se con valori diversi ha riguardato un po’ tutte le regioni. Questo un quadro parziale, percorrendo lo Stivale da Nord a Sud: Piemonte (+20%); Veneto (+23%); Emilia Romagna (+21%); Lombardia (22%); Liguria (+26%); Marche (+23%); Lazio (+25%); Campania (+24%); Basilicata (+26%); in fine la Calabria dei “record” (36%). Tutte regioni, comunque, che già prima dell’introduzione della norma facevano registrare aumenti delle vendite degli equivalenti.Lo studio prende in esame anche le prime 10 categorie terapeutiche del mercato dei farmaci rimborsati dal Ssn per confezioni e spesa, e la relativa incidenza dei medicinali generici. Analizzando la tabella, emerge che ad esempio tra gli inibitori di pompa, farmaci gastroprotettori, il 62% delle vendite è rappresentato da medicinali di marca e il 37% dagli equivalenti. Anche tra i farmaci contro l’ipertensione cresce la voglia di generico: la fetta dei “senza marca” secondo gli ultimi dati è pari al 29% della spesa. E ancora: tra i betabloccanti la quota dei generici supera ormai il 26% del mercato, mentre la spesa per gli antidepressivi equivalenti sfiora il tetto del 20%.Insomma, anche se ancora non si raggiungono le percentuali di vendita registrate in Europa – dove fino al 90% delle ricette è “senza griffe” – l’introduzione dell’obbligo di prescrizione del principio attivo sembra funzionare. Con soddisfazione di Assogenerici («Ora è finalmente chiaro al paziente che passare all’equivalente non significa “cambiare farmaco”, ma soltanto cambiare confezione e prezzo») di Federfarma e del Codacons, ma anche con qualche polemica. Quella di Farmindustria innanzitutto, secondo cui il boom dei generici sta segnando il tracollo delle storiche aziende che producono farmaci “griffati”, in alcuni casi già vicine a perdere il 70% del fatturato. Con conseguenti ricadute sull’occupazione. E quella di Federanziani, la federazione delle associazioni della terza età, che pur apprezzando l’aumento delle vendite dei generici è fortemente preoccupata per il fenomeno dello “zapping farmaceutico”, per cui ai cittadini, e in particolare agli over 65, sono sempre più spesso i farmacisti a prescrivere farmaci e non i medici. Il rischio? Creare confusione e banalizzazione dei medicinali, con la conseguenza di indebolirne l’aderenza alla terapia e pregiudicare, nella peggiore delle ipotesi, l’efficacia delle cure. Altro che risparmio.
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