I magistrati hanno garantito l’impunità a Fini e ai suoi uomini in cambio dell’appoggio in Parlamento. Tant’è che l’atteggiamento del presidente della Camera sulla legge di riforma delle intercettazioni è cambiato dopo aver ricevuto una delegazione dell’Associazione Nazionale Magistrati: e così il decreto è stato affossato dal tiro al bersaglio degli uomini legati a Fini. È il ragionamento che il premier Silvio Berlusconi avrebbe fatto ieri, durante un pranzo con la delegazione degli europarlamentari del Pdl. E che alcuni partecipanti a quell’appuntamento hanno riferito ai giornalisti.Secondo i testimoni presenti, Berlusconi avrebbe offerto anche elementi piuttosto circostanziati del fatto che ha denunciato: ovvero che il presidente dell’Anm, Luca Palamara, avrebbe consegnato direttamente nelle mani della presidente della Commissione Giustizia della Camera, la finiana di ferro Giulia Bongiorno, «quattro emendamenti». Le polemiche, sul fronte sempre incandescente dei rapporti politica e giustizia, sono esplose. E sul capo di Berlusconi sono piovute molte smentite. Gianfranco Fini è stato, al suo solito, glaciale: «Questa è una delle tante barzellette del vasto repertorio del Cavaliere». Mentre Giulia Bongiorno, chiamata direttamente in causa, ha replicato: «Spero che il presidente del Consiglio abbia modo di smentire, altrimenti si lascerebbero in circolazione notizie ridicole e avulse dalla realtà».Berlusconi, però, non si è tirato indietro: parlando con i giornalisti ha affermato di «non aver fatto alcuna dichiarazione pubblica». Una smentita a metà, o addirittura una conferma, visto che l’incontro a cui ha partecipato era di natura privata. La polemica è andata oltre il noto fronte Pdl-Fli. Donatella Ferranti, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia, è insorta: «Se Berlusconi è davvero a conoscenza di protezioni che la magistratura avrebbe garantito al presidente della Camera e ad alcuni suoi uomini, non può limitarsi ad affermazioni generiche, ma deve assumersi le proprie responsabilità e quindi riferire subito dei fatti a sua conoscenza nelle sedi istituzionali e giudiziarie». Le ha fatto eco il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, che ha presentato una interrogazione parlamentare: «Il premier faccia chiarezza. È inaccettabile che accusi la magistratura di commettere reati, senza fornirne le prove e senza doverne neanche rispondere». Replica Osvaldo Napoli, vicecapogruppo del Pdl: «L’accordo tra Fini e Anm c’è stato perché così risulta dalla logica degli avvenimenti e dal buon senso. Così come è evidente che per la casa a Montecarlo è stata chiesta l’archiviazione...». Interviene anche il vicepresidente del Csm Vietti. Per lui l’ipotesi di uno scambio leggi-impunità sembra essere «fantascienza». Magistratura Democratica, la corrente di sinistra dei giudici, si indigna «Sarebbe un ipotesi stravagante – dice il segretario Piergiorgio Morosini – e nello stesso tempo offensiva». Parla anche il presidente dell’Anm Palamara: «Le nosre posizioni vengono espresse attraverso pubbliche dichiarazioni, comunicati e audizioni. E così è stato anche nel caso delle intercettazioni».Allargamento della maggioranza ai partiti moderati o caccia ai singoli deputati "pentiti"? Silvio Berlusconi, allo stato, sembra lasciarsi aperte tutte e due le strade: pronto ad accogliere Pier Ferdinando Casini a braccia aperte, nel nome del Partito Popolare Europeo. O a sfilare a uno a uno parlamentari dell’Udc, dell’Api, i «pentiti di Fli» e persino qualche cattolico inquieto del Pd. «I numeri per ora non li do – ha spiegato il premier ieri al pranzo con gli eurodeputati del Pdl – ma saranno tanti». E poi spiega ai giornalisti: «Tanti stanno riflettendo su un loro posizionamento in sintonia con gli elettori cattolici e moderati». Una cosa però è sicura: nessuna pietà per il presidente della Camera, Gianfranco Fini, colpevole di «alto tradimento», e al quale il Cavaliere pronostica un futuro politico infausto: «È destinato a sparire. Si è inserito in una collocazione elettorale da cui non avrà un voto». I suoi sondaggi parlano chiaro: 31 per cento al Pdl, un misero 3,4 per Futuro e Libertà. Va meglio per l’Udc, spiega, anche perché «Casini piace molto alle signore» e perché «ha una sovraesposizione in tv». Ma il premier si dice sicuro che Casini, anche se non entrerà al governo, «non farà mancare i suoi voti». Una battuta non nuova, che sembra far riemergere un vecchio pallino di Berlusconi: il superamento della par condicio e la divisione degli spazi in tv tra i partiti in proporzione ai voti ricevuti. La guerra tra la terza e la quarta carica dello Stato, insomma, continua senza tregua. Ed è ricominciato il pressing degli uomini di Berlusconi, perché l’ex amico Gianfranco si dimetta dal seggio più alto di Montecitorio. Dice il portavoce del Pdl Daniele Capezzone: «Fini ha trascinato la carica istituzionale in contesa quotidiana parziale, faziosa, lontanissima dalla dimensione super partes. Dovrebbe dimettersi e invece è aggrappato alla poltrona». Ma da quell’orecchio Fini non sembra proprio sentire. Ieri, salutando i dipendenti della Camera, ha chiarito una volta di più che rimarrà «presidente fino al termine della legislatura». Smentendo così anche le previsioni che si sarebbe potuto dimettere, in coincidenza con il congresso del suo partito, per assumerne anche titolarmente la guida politica. Sembra, invece, che - rifacendosi esplicitamente a quanto fatto da Pier Ferdinando Casini che, assumendo il ruolo di presidente della Camera, nominò Lorenzo Cesa segretario dell’Udc - Fini stia pensando a porre il fidato Adolfo Urso alla testa di Fli. Quanto alla campagna acquisti, Fini si è detto sicuro che ormai l’emorragia e finita e che, con la prospettiva del nuovo polo, tutti i parlamentari di Fli saranno ricandidati e, anzi, ce ne vorranno di nuovi. Ma niente elezioni a breve: «L’Italia di tutto ha bisogno, tranne che di una campagna elettorale».Il gelo rancoroso tra Berlusconi e Fini ieri ha avuto una dimostrazione plastica al Quirinale. I due si sono praticamente ignorati, senza nemmeno salutarsi. Mentre Berlusconi ha quasi assalito verbalmente il capogruppo del Fli al Senato Pasquale Viespoli, che si era avvicinato per salutarlo: «Non c’è un cavolo [
ma l’espressione era più forte, ndr] di ragione per votarvi».