Silvio Berlusconi, a destra, con Giorgia Meloni e Matteo Salvini - Ansa
Vale, a titolo esemplificativo, la risposta che Silvio Berlusconi, lo scorso primo gennaio, ha dato ad un parlamentare a lui vicino eppure scettico, molto scettico sull’operazione-Quirinale: «Guarda – ha replicato il Cav alle obiezioni e alle preoccupazioni –, questo obiettivo mi ha rigenerato, mi sento vivo...». Forse è tutto qui. O forse no. Forse c’è dell’altro ed è un groviglio complesso di elementi personali e politici, di ambizioni palesi e sotto-obiettivi nascosti. E la cornice ancora enigmatica che avvolge l’autocandidatura al Colle, ora diventata indicazione "sub iudice" dell’intero centrodestra, è un vezzo che l’ex premier vuole preservare sino all’ultimo secondo. Gli analisti che quotidianamente gli consegnano report e sondaggi a Villa Grande sono entusiasti, dal loro punto di vista: il nome Berlusconi è tornato a invadere le rassegne stampa e i servizi televisivi, i giornali «di sinistra» tornano a scrivere speciali su di lui «come ai bei tempi», addirittura Sabina Guzzanti è riapparsa sul piccolo schermo con un freschissimo aggiornamento della storica imitazione del Cav. Ma soprattutto, è il Paese che si chiede se Silvio faccia sul serio o se è solo un gioco. La risposta ufficiale è che Berlusconi fa sul serio. Ma l’arte delle sfumature tiene in piedi tutte le altre ipotesi.
La strategia one shot. La faccenda della candidatura sarebbe così avanti, sentendo i berlusconiani di strettissimo rito, che anche la tattica parlamentare è praticamente definita. Nelle prime tre votazioni scheda bianca, nessun "test" sul suo nome. Il motivo? Semplice: i 50 e passa voti che mancano al centrodestra, che diventano 60-70-80 a seconda dei franchi tiratori, sarebbero raccolti tra peones che possono manifestarsi una volta, una volta sola, quella decisiva. Le testimonianze di ex M5s e parlamentari del Misto "avvicinati" da emissari vecchi e nuovi dell’ex premier si moltiplicano. Ovviamente ad esporsi e a dire di essere stati contattati sono quelli che dicono o affermano di aver detto «no», gli altri restano avvolti nelle nebbie. Sono le nebbie fitte e imprevedibili che preoccupano il Pd.
La gabbia di Salvini e Meloni e la guerra dei tempi. Che Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sentano in gabbia lo si capisce dalle dichiarazioni che rilasciano, puntuali, il giorno successivo ai vertici di centrodestra. Sono dichiarazioni in cui il nome di Berlusconi sparisce e tornano gli appelli all’unità. È accaduto anche ieri, e sembra incredibile alla luce della nota pro-Cav di venerdì elaborata a Villa Grande. L’unica condizione chiesta a Pd e M5s è di «evitare veti e arroganza». Sembra quasi un appello, specie ai dem, a non scagliarsi contro il Cav per non complicare ulteriormente le cose. L’altra richiesta di Salvini è non insistere su Mario Draghi, per togliere la clava del voto anticipato dal capo dei parlamentari in ambasce. Ma a questo punto, la leadership del capo leghista, e quella di Meloni, si misurerà sulla capacità di far rispettare a Berlusconi un timing ben preciso. Se riusciranno a far sciogliere la riserva al Cav entro la settimana prossima, e quindi ottenerne il passo indietro per assenza di numeri certi, allora potranno tornare a giocare un ruolo nella partita del Quirinale. Se invece resteranno incantati dalle finte e controfinte del Cav, e lo lasceranno arrivare ai tempi supplementari, potrebbero trovarsi in una condizione di sconfitta totale: con un candidato a rischio e senza più potere di proposta. E c’è chi ha pochi dubbi: a prescindere da come andrà a finire, ridurre il peso di Salvini e Meloni è uno dei principali obiettivi di Berlusconi. Ed è a un passo dal riuscirci.
Il guizzo di fantasia. Se Salvini e Meloni falliranno il test di leadership, Berlusconi arriverà al mattino del 27 gennaio, giorno cerchiato in rosso, all’alba della quarta chiama, con due strade. La strada «mi merito almeno un giro», ovvero andare al voto sulla sua candidatura e vedere l’effetto che fa. O la strada della mossa a sorpresa, non rara nella storia del Cav: sfilarsi all’ultimo secondo, dopo aver sfibrato alleati e avversari, «per il bene del Paese». E indicare, con il pallino in mano, l’alternativa a se stesso. Da autocandidato a elettore numero uno. Di Amato. Della presidente del Senato, Casellati. O, anche, di Sergio Mattarella, per salvaguardare la continuità di Draghi al governo. Per poi rivendicare, un secondo dopo, che per la prima volta è stato il centrodestra a trazione moderata ad aver risolto il rebus del Quirinale.