Domenico Martimucci in campo: la sua vera passione era il calcio
Ergastolo per strage con morte di una persona, aggravata dal metodo mafioso, omicidio volontario, otto tentati omicidi, detenzione di esplosivo. È quanto chiesto ieri dai pm antimafia Giuseppe Gatti e Renato Nitti per la bomba a una 'sala giochi' di Altamura che nella notte del 5 marzo 2015 provocò la morte di Domenico Martimucci, 26 anni, la prima vittima innocente delle 'azzardomafie'. Il suo nome sarà letto oggi a Foggia, assieme ad altri 971, nella manifestazione centrale della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata da Libera e Avviso pubblico.
Ieri la durissima requisitoria dei magistrati contro il boss Mario D’Ambrosio, che fece piazzare un potentissimo ordigno con quasi un chilo di tritolo, «pari a 20 granate da guerra », hanno detto i pm, davanti alla sala 'Green table'. Una vera e propria «volontà stragista – è stata l’accusa – nel posizionare una bomba di tale micidialità non dinanzi ad una saracinesca chiusa, ma davanti alla vetrata di un esercizio commerciale ancora aperto e in quel momento affollato di giovani » che stavano giocando a carte e vedendo una partita in tv. Tra di loro Domenico, promettente calciatore, Domi per gli amici, soprannominato 'piccolo Zidane' per la sua bravura. E gli effetti sono gravissimi, davvero una strage. Vengono feriti otto ragazzi.
Domenico appare subito il più grave, colpito alla testa da pezzi di metallo, ma un altro giovane rischia di perdere un braccio e un altro resta sfregiato. Domi rimane in coma cinque mesi, viene trasferito in una clinica austriaca specializzata in riabilitazione neurologica, ma il suo fisico sportivo non ce la fa. L’1 agosto muore dopo un’interminabile agonia. «Non era soltanto un’operazione finalizzata a un recupero di clientela – hanno sostenuto i pm – ma a rimpinguare il patrimonio mafioso dei D’Ambrosio profondamente destabilizzato da tutta una serie di eventi: l’uccisione del fratello Bartolo, il tentato omicidio di Mario. Il clan aveva bisogno del terrore, del gesto eclatante, con una vera e propria bomba».
Nei giorni precedenti D’Ambrosio aveva telefonicamente pregato di tornare da lui i clienti che, dopo il suo tentato omicidio, si erano spostati al 'Green table'. «È il segno – hanno sottolineato i magistrati – di uno che non fa più paura a nessuno e ha bisogno di riaccreditarsi. Aveva bisogno di un gesto eclatante per ridare dignità al suo prestigio e alla sua fama mafiosa che era in forte calo. Non era una bravata, era tritolo». Perché l’azzardo per lui era fondamentale. Troppo importante. Slot, azzardo legale, non clandestino. La Dda ha fatto dei calcoli precisi sul giro d’affari di D’Ambrosio quando gli andava bene. Alla sua sala giravano cifre da capogiro, un giro vorticoso. Un affare che non poteva perdere assieme alla reputazione mafiosa.
La bomba, è ancora l’analisi dei pm, «era un modo per riaccreditarsi da un punto di vista mafioso utilizzando il settore dell’azzardo come luogo attraverso cui questa operazione di riaccreditamento doveva avvenire». Dunque non ci si ferma davanti a niente, hanno scritto gli inquirenti, agendo con «modalità plateali », provocando «allarme sociale», rafforzando «il messaggio omertoso a chi doveva intenderlo». Perfette modalità mafiose. Ma grazie alle telecamere della zona, i carabinieri riescono a individuare l’auto degli attentatori, di proprietà di un incensurato, il 21enne Luciano Forte, figlio di un poliziotto, finito in un giro di droga gestito dal clan. Per lui ieri la richiesta di 19 anni e 2 mesi. Dopo l’arresto, il ragazzo crolla. Le sue dichiarazioni sono decisive, e questo spiega anche lo sconto di pena. Così in meno di quattro mesi sono scattate le manette.
E dopo un anno è arrivata la prima dura condanna col rito abbreviato emessa dal Gup di Bari. Trenta anni per Savino Berardi, 25 anni, colui che aveva messo la bomba davanti alla vetrata. L’11 luglio 2017 la Corte d’Assise d’appello riduce la condanna a 20 anni. Dal pro- cesso era infatti emerso che era stato coinvolto all’ultimo momento per mettere l’ordigno e non aveva neanche capito che cosa ci fosse dentro. Ora le durissime richieste nel processo con rito ordinario. Intanto a D’Ambrosio vengono sequestrati un appartamento, un magazzino, un garage ad Altamura, una lussuosa villa al mare a Policoro, varie disponibilità finanziarie e le quote di due società di costruzioni. Frutto di quell’affare al quale non voleva rinunciare, fino ad uccidere. «Un attentato al futuro» hanno detto gli avvocati di parte civile, che hanno quantificato le richieste di risarcimento danni in 500mila euro per i giovani feriti, fra 1,5 e 2 milioni di euro per ciascun familiare di Domi.