venerdì 8 marzo 2013
​un ovegno al “Regina Apostolorum” ha fatto il punto sulla diffusione della piaga in concomitanza con la crisi. Le responsabilità della pubblicità, che promette a tutti vincite mirabolanti, ma impossibili. A un compulsivo basta una settimana per perdere tutto.
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​Il primo inganno è già nel nome. Si chiama gioco d’azzardo, ma con il gioco non ha proprio nulla a che fare. Chi scommette, però, non lo sa. E crede che - anche qui - esperienza e abilità aiutino a vincere. Un po’ come negli altri giochi. «Meccanismi di pensiero ingannevoli. Errori cognitivi. È su questo che punta la pubblicità delle aziende del gioco d’azzardo. Le uniche a vincere davvero, se il loro fatturato nel 2011 è stato il terzo in Italia: quasi 80 miliardi, più dei 56 miliardi della Fiat». Il dottor Graziano Fiscella, del Dipartimento di salute mentale e dipendenza della Asl 3 di Genova, sa di cosa parla, visto che cura giocatori patologici. E avverte: «La dipendenza da gioco è la più dispendiosa: un cocainomane, che spende somme elevatissime, impiega un anno per sperperare i soldi ricavati dalla vendita della sua casa. A un giocatore patologico basta una settimana».L’occasione per analizzare i contorti meccanismi di pensiero che spingono i giocatori a pericolosissimi comportamenti irrazionali è il seminario organizzato all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum sulle conseguenze della «Crisi economica tra individuo e società», tra cui appunto l’incremento del gioco d’azzardo e del rischio del suicidio.Il dottor Fiscella ricorda la classificazione dei giochi del sociologo francese Roger Caillois: «C’è l’agon, il gioco basato sulla gara. C’è il mimicry, il gioco dell’imitazione, del "facciamo finta che..." dei bambini, del teatro. C’è l’ilinx dell’altalena o delle montagne russe che stimola la vertigine. E c’è l’alea, dal latino "dado". Che, diversamente da tutti gli altri, non trae vantaggio dall’esperienza, dall’allenamento, dall’abilità: l’evento casuale – avverte l’esperto – non dipende in alcun modo dagli eventi precedenti e non influenza minimamente quelli successivi».Ma chi gioca d’azzardo non lo sa: «Ha le idee confuse perché è abituato a pensare in quel modo». Qualche esempio? «Alla roulette, dice il giocatore, ho puntato sul 24 ma è uscito il 25: ci sono andato vicino, al prossimo giro aggiusto la mira». Oppure: «È uscito il dispari per 5 volte, ora gioco il pari». Ancora: «Gioco il numero ritardatario che non esce da un anno. Ma ogni estrazione fa caso a sé, non è il sacchetto della tombola».La pubblicità lo sa e stuzzica questi meccanismi: «Il più eclatante è "Ti piace vincere facile" del Gratta&Vinci. La facilità sta nella giocata, non nella vincita. E gli spot alludono ai giochi normali, insinuando l’idea che si può barare: come la partita di calcio dove si gioca in 11mila contro 11. O l’isola deserta col selvaggio Venerdì che copre gli occhi a Robinson Crusoe e gli chiede "Indovina chi è"». O la catena dei Three Bar «dove la sala da gioco era definita "sala vincita"».In Italia sono 3 milioni i giocatori a rischio, dice il Cnr, 800mila quelli patologici. Ma quasi nessuno conosce le reali possibilità di vincita. «Un cittadino americano che chiamasse a caso pescando dagli elenchi per parlare con Angelina Jolie avrebbe il doppio delle possibilità di azzeccarci rispetto a un italiano che voglia fare 6 al SuperEnalotto: il primo ha una chance su 300 milioni, il secondo una su 626 milioni 614mila e 630».Ma il giocatore ci prova e ci riprova. E la dipendenza è dietro l’angolo: «Una mia paziente ha sviluppato il gioco patologico con una sola giocata. La prima volta alla <+corsivo>slot machine <+tondo> ha vinto 500 euro. Non ha più smesso». E la chiamano fortuna.
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