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Ayedi, 52 anni, è morto il 31 ottobre perché per un senza dimora, e lui lo era da tantissimi anni, non ci sono luoghi dove passare la convalescenza dopo un ricovero ospedaliero. Così si finisce nuovamente in strada e invece di guarire si peggiora. E si deve tornare in ospedale. Ma spesso è tardi, come è stato per Ayedi, malgrado l’aiuto della Caritas di Roma. Non il primo caso. «Quando li dimettono li mandano in ambulanza da noi al poliambulatorio o all’ostello. Ma non sono luoghi adatti», spiega Salvatore Geraci, responsabile dell’area sanitaria. Così il direttore della Caritas, Giustino Trincia, l’8 novembre ha scritto una dura lettera agli assessori regionali e comunali alla Salute e alle Politiche sociali, D’Amato, Troncarelli e Funari, per denunciare «la morte di un fratello senza dimora» e per chiedere «un appuntamento urgente per definire modalità di accompagno di persone fragili in presenza di dimissioni ospedaliere non protette».
Fino ad oggi non è arrivata nessuna risposta. «La drammatica vicenda – si legge nella lettera – ci obbliga ad alzare forte la nostra voce e ad affermare l’urgenza di una iniziativa da parte delle istituzioni pubbliche che hanno doveri e responsabilità non declinabili ad altri, con l’aiuto nostro e della ricca rete di solidarietà che contraddistingue Roma, affinché non accada ad altri». Ayedi aveva trovato nel poliambulatorio un punto di riferimento dove poter alleviare le sue sofferenze. Il 29 settembre si presenta nuovamente: «Non riusciva a stare in piedi, appariva emaciato e scavato in volto, itterico, tremante per il freddo e con una scarpa da gesso e una da ginnastica solo poggiate sui piedi perché in entrambi aveva medicazioni fatte da solo alla bell’e meglio per ulcere da diabete con amputazione di due dita».
Così gli impongono di rivolgersi al Pronto soccorso mettendogli a disposizione l’ambulanza. Lui rifiuta ma il giorno successivo al Policlinico Umberto I. Il 18 ottobre, «seppur in condizioni mediocri e con una terapia assegnata di tipo domiciliare (era risaputo che era senza dimora) è stato dimesso per strada». Perché Ayedi non aveva altro. E così la situazione precipita. Il 30 si presenta nuovamente al poliambulatorio Caritas. Gli operatori si adoperano per le medicazioni, ma chiamano il 112 per un trasferimento immediato in ospedale.
Ci vogliono circa tre ore, anche perché nel pieno del G20 le ambulanze sono tutte impegnate. Durante l’attesa non viene mai lasciato da solo. E lui si sfoga: «Non ho paura di morire, ma di soffrire; credo in Dio, ma non mi ascolta; gli chiedo di morire perché nella mia vita c’è troppo dolore, ma lui non mi ascolta». Il 31 ottobre viene contattato il Policlinico Umberto I per avere notizie sulle sue condizioni e purtroppo si apprende del suo decesso. Una morte drammatica, praticamente annunciata, così Trincia lancia una precisa accusa: «Non ci si può rassegnare alla perdita di una vita umana, al primato degli automatismi delle procedure e dei processi organizzativi e al primato del paradigma economico finanziario nella gestione di servizi essenziali, quando in “gioco” c’è la vita di un essere umano».
E il direttore fa alcune richieste perché, sottolinea, «tra la fase acuta di una malattia e la guarigione ci sono tutta una serie di attenzioni verso la persona che non sono solo di natura farmacologica, ma anche e soprattutto di natura umana». In particolare si chiede la definizione di un Protocollo di gestione delle dimissioni delle persone socialmente fragili e l’individuazione o creazione di strutture pubbliche o private che mettano a disposizione l’accoglienza e la loro professionalità nell’accompagnare la persona fragile al superamento della malattia. Quattro anni fa l’ospedale San Giovanni ha donato al Comune una propria struttura proprio per questa accoglienza. Mai utilizzata. E quasi ogni giorno i senza dimora chiedono aiuto alla Caritas.