Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei - Ansa
Informare correttamente senza semplificazioni, anzi affrontando la complessità per offrire chiavi di lettura. Senza mai smarrire la propria identità ma restando aperti al confronto. Lavorando all’unità nel Paese e alla comunione nella Chiesa. Incentivando l’impegno politico come progetto e servizio al bene comune. Il mandato che il presidente della Cei e arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi consegna ad "Avvenire" è tanto impegnativo quanto sfidante.
Eminenza, in 55 anni, quanti ne compie "Avvenire", l’Italia è molto cambiata sul piano sociale e religioso. Da Paese profondamente cattolico, i credenti sono ridotti a “piccolo gregge”. Qual è il senso per la Chiesa italiana di avere una voce come quella del nostro giornale?
Sono cambiate la società, la Chiesa e anche la comunicazione. Quest’ultima a una velocità ancora maggiore. Ma, come ci ha insegnato il Concilio, dobbiamo sempre leggere i segni dei tempi. Anche attraverso i giornali. In una mano la Bibbia e nell’altra il quotidiano e poi tutte e due insieme per pregare e servire. "Avvenire" ha un ruolo determinante nell’informare, discernere e interpretare gli avvenimenti. Offre chiavi di comprensione che aiutano l’esperienza personale a farsi conoscenza e cultura. Come ricordava san Giovanni Paolo II occorre una Chiesa evangelica, che non ha paura di andare al largo e capace di produrre cultura.
Fin dalla sua nascita, "Avvenire" ha inteso trattare tutti i temi sociali e politici che interessano l’Italia e potremmo dire l’umano in generale, proponendo il modello antropologico cristiano. Sempre però confrontandosi con i non credenti e le culture diverse da quella cattolica. Come “stare” nel dibattito: fermi nel riproporre le proprie certezze o lasciandosi interrogare dalla realtà e dagli altri?
È una dialettica tra due poli che sempre si propone. Mai smarrire la propria identità, ma attenzione anche a proporre delle certezze senza saperle comunicare, tanto che non rispondono alle domande profonde delle persone. Sono due tentazioni da rifuggire: assecondare le mentalità comuni o arroccarsi in una ripetizione esteriore, e a volte farisaica, delle proprie convinzioni. Ma questa è la sfida della vita, di cui non dobbiamo aver paura: occorre stare nella complessità delle situazioni e lì riproporre la semplice, esigente verità del Vangelo.
Forse l’equilibrio si trova incontrando sempre la persona nella sua umanità, nelle difficoltà concrete della sua vita. Anche da parte di un giornale…
La Chiesa, in questo senso, ha un punto di osservazione straordinario e "Avvenire" che vuole essere la voce di tutta la complessità del mondo cattolico – tutt’altro che omologato, ma vivo, pieno di differenze di posizioni e sensibilità, un poliedro capace di unire riflessione ed esperienza, sociale e spirituale – deve sempre più incontrare le persone nelle diverse situazioni. Per lasciarsi interrogare, individuare chiavi di interpretazione, indicare soluzioni, offrire speranza.
La polarizzazione è un fenomeno che interessa non solo la società ma anche i cattolici e la stessa Chiesa. Siamo alla vigilia di nuove divisioni? "Avvenire" nel suo servizio alla Chiesa quale ruolo può giocare: essere terreno di confronto senza anatemi reciproci?
La rappresentanza e il confronto tra sensibilità diverse sono fondamentali e non ci devono spaventare. La vera sfida è sempre la comunione. Guai a chi divide. Il contrario, però, non è il pensiero unico! Possiamo evitare il provincialismo e avere invece uno sguardo più ampio, attento al mondo e alla complessità delle situazioni e delle vicende umane, senza cedere alle semplificazioni. Tutto l’umano ci interessa come cristiani e tutto può essere raggiunto dall’intelligenza e dalla passione del Vangelo. Occorre smettere di alimentare un immaginario polarizzato, ad esempio per quello che riguarda l’immigrazione: “tutti dentro” o “tutti fuori”. Sono entrambe posizioni fallaci. Occorre invece lavorare per un sistema giusto ed efficace di accoglienza, che tenga conto anche delle esigenze del mercato del lavoro. Sempre però salvando la vita di chi rischia di morire nel Mediterraneo: è la legge del mare, è la legge dell’umanità, per le quali non ci sono deroghe. Circola troppa cultura di morte e invece noi cristiani dobbiamo promuovere la vita in tutte le sue fasi e condizioni: dall’inizio alla fine. Quanto alla Chiesa, ciò che serve è un grande servizio alla comunione. Guai a chi si sottrae a questo impegno. Lavorare alla divisione è diabolico.
Ma i cattolici rischiano l’irrilevanza, nella politica? Serve un nuovo contenitore molto caratterizzato o una presenza più incidente dei cattolici nei diversi partiti? O dobbiamo concentrare gli sforzi nell’essere presenza significativa nel sociale e di conseguenza influenzare l’azione politica?
Il grande riferimento è quello della Dottrina sociale della Chiesa che dobbiamo riscoprire nella sua attualità e nei suoi aggiornamenti, perché la Dsc non è qualcosa di statico ma di dinamico. Che richiede una lectio della realtà, con un impegno di intelligenza pari a quello che riserviamo alla comprensione della Parola di Dio. L’enciclica Fratelli tutti ci dà una grande indicazione perché riparla dell’”amore politico”. Lo fa in una grande visione del futuro e ammonisce a non accontentarsi solamente dell’impegno assistenziale e nemmeno di una dimensione esclusivamente spirituale. Ma chiede che lo spirituale entri nella vita concreta e l’esperienza sia capace di farsi cultura e progetto. I contenitori nei quali esprimere un agire politico possono essere tanti, l’amore politico può prendere varie direzioni. Ma in tutte queste possibilità siamo impegnati ad essere sempre più cristiani, a ritrovare le vere motivazioni del fare politica, dell’impegno per il bene comune, in obbedienza appunto ai principi della Dottrina sociale e della propria coscienza.
La Costituzione è ancora la base fondamentale della nostra convivenza e del nostro essere popolo, italiani? Può essere cambiata?
La Costituzione è fondamentale, ma non è il Vangelo. Può essere cambiata e già è stata cambiata. L’importante è che la si riscriva con lo stesso inchiostro con cui è stata scritta frutto di un grande confronto tra ideali diversi ma in uno spirito unitario. La Costituzione rappresenta le fondamenta della casa di tutti: non può essere modificata se non con il contributo di tutti. E attenzione a non fare mai degli aggiustamenti opportunistici, perché la Carta regola un sistema che ha un suo equilibrio di pesi e contrappesi e dunque occorre considerare l’insieme del tutto senza guardare a interessi particolari.
La pace è stata un tema centrale nell’azione pastorale e nel magistero di Paolo VI che promosse la nascita di "Avvenire". Ma la ricerca della pace viene spesso confusa con l’inerzia o la confusione tra le ragioni dell’aggredito e dell’aggressore. E anche solo il prospettare soluzioni diverse dall’intervento armato viene equivocato…
Dobbiamo sempre credere che si possa ottenere una pace giusta e sicura attraverso l’utilizzo di strumenti non violenti. Può apparire velleitario, ingenuo, ma non è così. Speriamo che nessuno pensi di tornare a una logica appannaggio del più forte, abbandonando di fatto quella convinzione così acuta della generazione sopravvissuta alla II Guerra mondiale che ha permesso la costruzione degli organismi internazionali (pur con i loro limiti), del multilateralismo e garantito la limitazione dei conflitti armati. E se gli strumenti finora utilizzati non sono stati sufficienti è nostro dovere cercarne di più efficaci. Ma questo non vuol dire mettere tutto sullo stesso piano o confondere le responsabilità degli uni e degli altri. Il dialogo non è sconfitta! Al contrario, avendo ben presenti le diverse responsabilità, operare perché non siano le armi e la legge del più forte a regolare i conflitti e i rapporti tra i popoli. Se provassimo a investire seriamente e con creatività sulla diplomazia quanto investiamo in armamenti certamente otterremmo i risultati.