Paolo VI con il direttore di Avvenire, Angelo Narducci, nel 1971 - Archivio Istituto Paolo VI di Brescia
Il 4 dicembre del 1968 uscì nelle edicole il primo numero di “Avvenire”: quel giorno di cinquantacinque anni fa giunse a compimento la lunga gestazione del quotidiano nazionale dei cattolici italiani, auspicato da tempo e seguito in prima persona dal Papa Paolo VI, che di “Avvenire” può essere considerato il vero fondatore e padre.
Come è ormai noto fu infatti papa Montini a immaginare la realizzazione di un quotidiano cattolico nazionale e a operare con lungimiranza e determinazione per far nascere e sostenere “Avvenire”, intraprendendo una iniziativa editoriale di grandissimo spessore che non aveva eguali nel panorama della stampa cattolica europea e internazionale. Ma quale doveva essere il compito del giornale cattolico nelle intenzioni di Paolo VI? Da arcivescovo di Milano, Montini si era interessato costantemente alle vicende del quotidiano della diocesi, “L’Italia”, dalla cui unificazione con il bolognese “L’Avvenire d’Italia” sarebbe nato “Avvenire”.
Fu proprio in questi anni che il futuro Pontefice prefigurò la sua idea di un grande giornale cattolico nazionale al quale sarebbe spettato il compito di seguire «con particolare interesse le vicende della nostra società in via di trasformazione, con l’intento di educare il nostro popolo al senso di giustizia e di carità e di favorire lo sviluppo economico e sociale, secondo gli insegnamenti della sociologia cristiana».
Il quotidiano cattolico doveva essere, nella visione montiniana, «un giornale che cerca di affermarsi come testimonianza sincera e moderna d’un cattolicesimo vivo». Montini era ben consapevole delle difficoltà alle quali andava incontro una tale opera, e non le nascose a papa Giovanni XXIII, al quale parlò apertamente nel giugno del 1962, visitandolo insieme ai giornalisti de “L’Italia”.
In quel discorso colui che esattamente un anno dopo, il 21 giugno 1963, sarebbe succeduto a papa Roncalli ricordava al Pontefice «quanto sia dura la vita d’un giornale cattolico: povero e privo di mezzi economici, ed isolato ed avversato per la stessa libertà e per la stessa franchezza, con cui serve la causa dei suoi principii e non altro; spesso incompreso, criticato e abbandonato da molti di quelli stessi, che avrebbero dovere e vantaggio a sostenerlo; impegnato alla scelta, si può dir quotidiana, dell’opinione ritenuta migliore, discutibile e anche talora fallibile, forse, e perciò subito coinvolto in discussioni e in polemiche, e talora anche da amici e confratelli, ripreso ed offeso, il giornale cattolico è tentato di attribuire a sé le parole di san Paolo: foris pugnae, intus timores» (lotte di fuori, apprensioni al di dentro, nda).
Montini – il cui padre, Giorgio, aveva diretto un quotidiano cattolico bresciano – era però certo sin da allora «che la passione del giornale cattolico si consuma nell’animo del giornalista cattolico» in quanto «tanto essa è in lui più intima e fiera, quanto più grande è in lui l’amore che a questa militante e pericolosa professione lo spinge!».
Paolo VI, consapevole che non «serve dire quello che è vero se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono» (come aveva confidato a Jean Guitton nel 1950), auspicò sin dall’inizio del suo pontificato un rinnovamento della stampa cattolica, chiamata a eseritare «una maggiore incidenza sulla pubblica opinione», e in tal senso “Avvenire” – giornale che papa Montini, come confidò egli stesso, leggeva per primo al mattino e che non mancò di sostenere concretamente in molteplici circostanze – avrebbe dovuto rappresentare un effettivo «strumento di evangelizzazione», la quale «porta con sé l’elevazione dell’uomo, ne promuove la dignità, la libertà, la grandezza».
Il giornale, che anche pubblicamente Paolo VI definiva il «nostro» “Avvenire”, era per il Papa «erede di tante tradizioni nobilissime, frutto di tante fatiche e sacrifici, e oggetto di tante speranze». Nell’udienza generale del 14 luglio 1971 papa Montini parlò di “Avvenire” indicando con chiarezza ciò che si attendeva dal quotidiano: «Il breve tempo ora a disposizione non permette che ci dilunghiamo sulla necessità del quotidiano dei cattolici italiani quale impegno morale collettivo di primo ordine», spiegò in quella circostanza il Pontefice che, con le sue parole, sembrò quasi ridefinire il carisma fondativo del giornale, da lui inteso «quale pubblica espressione di vitalità, di presenza, di coerenza e di coraggio ecclesiale; quale punto di incontro e di manifestazione delle diverse esperienze di pensiero e di azione maturate in seno alla Chiesa italiana nell’unità della fede e della carità; quale mezzo insostituibile di informazione e di formazione; quale strumento d’incidenza sull’opinione pubblica nazionale, a vantaggio del bene comune».
Per Paolo VI, che aveva rivisto personalmente le Linee programmatiche del quotidiano stabilite dalla Cei, “Avvenire” avrebbe dovuto avere un carattere formativo oltre che informativo, così da rendersi «uno strumento di vera crescita spirituale di tutto il popolo di Dio». Risvegliare le coscienze e recuperare una voce che sembrava appannata fu l’esplicito mandato che il Pontefice affidò a tutti i rappresentanti del giornale, ricevuti in udienza il 27 novembre del 1971. In tale delicato compito i giornalisti di “Avvenire” erano considerati «alleati del Papa» e «apostoli» nella società. «Dobbiamo avere una maggiore coesione fra di noi – concluse allora Paolo VI, invitando tutti all’impegno –, una maggiore coscienza che noi dobbiamo parlare, parlare insieme e non fare stridore di opinione molteplice e differente».
A distanza di oltre mezzo secolo, nel difficile rapporto di mediazione tra formazione, informazione e cronaca, nel confronto con nuove e diverse realtà e in un contesto umano, culturale e sociale profondamente mutato, si svolge ancora oggi la sfida con la quale “Avvenire” è quotidianamente chiamato a misurarsi, reinterpretando con fedeltà, ingegno e passione il mandato attribuitogli dal suo fondatore.