martedì 17 marzo 2009
Sono 264 le opere pubbliche al centro di contestazioni in Italia. Ma accanto a chi dà battaglia spunta la lobby di quanti sono favorevoli. Chiedendo garanzie e il coinvolgimento delle popolazioni locali interessate alle iniziative Alla Lombardia va il primato delle strutture osteggiate. A livello nazionale sono in testa i termovalorizzatori, seguiti dalle centrali a biomasse
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Il territorio è mio e me lo gestisco io. Se c’è una morale da cogliere nel di­battito che i progetti infrastruttura­li sollevano a livello locale, è proprio questa: i cittadini vogliono contare di più. E accanto a quanti, sempre più nu­merosi, si oppongono al passaggio di un’autostrada, alla realizzazione di una discarica per i rifiuti, alla costruzione di una centrale o di un rigassificatore, è spuntata una nuova minoranza: quella di chi chiede di poter essere coinvolto nei processi decisionali e guarda con fa­vore allo sviluppo del Paese. La battaglia si svolge a colpi di acronimi inglesi: Nimby, Not in my back yard, contro Pimby, Please in my back yard. Tradot­to: volete costruire? «Non nel mio giar­dino » dicono i Nimby. «Va bene, a cer­te condizioni» rispondono i Pimby. Die­tro a questo gioco di parole si muovo­no lobby e gruppi di pressione, il «po­polo del no», più forte su base locale, e il «po­polo del sì», che risulta più incisivo nel dibatti­to nazionale. A dire «no» sono tanti: secon­do il rapporto presen­tato settimana scorsa a Milano 264 impianti sono al centro di con­testazioni in tutta Ita­lia. In testa ci sono i ter­movalorizzatori, segui­ti dalle centrali a bio­masse e dalle discari­che di rifiuti urbani, con la Lombardia a cui spetta il prima­to di regione col maggior numero di strutture apertamente osteggiate (41). Dal punto di vista mediatico, invece, re­sta la Tav il tema di cui più si è parlato sui giornali, seguito dall’emergenza ri­fiuti in Campania. La mappa di chi è «contro» C’è il rischio di territori l’uno contro l’al­tro armati, proprio a causa dei veti sul­le infrastrutture? Per ora no. «Molti sin­daci e molte aziende ci stanno coinvol­gendo in progetti che presuppongono la creazione di consenso sui territori. Tra chi dice no e chi dice sì, occorre ri­conoscere un’autorità 'terza' in grado di farsi carico dei bisogni di sviluppo delle comunità» riflette Patrizia Ravaioli, presidente dell’associazione Pimby che, in modo bipartisan, raccoglie econo­misti, opinion maker e politici favorevoli a un’accelerazione dello sviluppo infra­strutturale del Paese. «Non vedo comi­tati a favore delle grandi opere in giro per l’Italia – risponde Stefano Ciafani, re­sponsabile scientifico di Legambiente – . Il cosiddetto 'popolo del sì', sugli im­pianti, fa fatica ad emergere, tanto che un’associazione come la nostra nel pa­norama dell’ambientalismo italiano si posiziona sempre di più come realista e pragmatica». Dall’Ilva di Taranto al rigassificatore di Porto Empedocle, dalla centrale ter­moelettrica di Bertonico, nel Lodigia­no, ai termovalorizzatori del Nord, la mappa delle contestazioni si arricchisce di anno in anno, nonostante gli sforzi di comunicazione delle imprese e il diffon­dersi di osservatori. «Il percorso di dia­logo con i territori compiuti in Val di Su­sa sull’Alta velocità ha dimostrato che il dialogo serve, al contrario della logica del muro contro muro», osserva Ciafa­ni. Il problema è che spesso le localiz­zazioni degli impianti sono decise dal­le aziende e non dalla politica, che ar­riva «sul pezzo» in colpevole ritardo. C’è persino la «sindrome Banana» A Poggibonsi, in Toscana, hanno da po­co inaugurato un termovalorizzatore che consente di mini­mizzare il conferimen­to dei rifiuti solidi ur­bani in discarica e con­temporaneamente produce energia per il consumo domestico di oltre 40mila persone. «Non ci sono state con­testazioni e ci sono vo­luti pochi mesi perché la struttura iniziasse a funzionare» commen­ta Ravaioli. «Dalla sin­drome Nimby siamo passati semmai alla sindrome Banana, ( Build absolutely nothing anywhere near anything, non costruire nulla vicino a niente e nessu­no). Anche noi ci battiamo perché i ter­ritori vengano ascoltati, però poi oc­corre che dalle discussioni si passi alla definizione di un progetto e alla deci­sione ». Il modello è la Francia, dove le diverse città fanno a gara per aggiudi­carsi opere di valore strategico, con l’ul­timo caso di Flamanville, la località fran­cese che ospita i cantieri della prossi­ma centrale nucleare di ultima genera­zione. «Ma l’atteggiamento decisioni­sta del governo non aiuta – sottolinea Ciafani – e se si pensa di aprire le pros­sime centrali nucleari con l’esercito, di­remo no a possibili pieghe autoritarie». L’orizzonte condiviso invece dovrebbe essere un coinvolgimento maggiore dei territori nelle scelte su base nazionale. «Ciò che manca in Italia è proprio una legislazione che consenta di prendere le decisioni, regolamentando le modalità di partecipazione dei cittadini ai pro­cessi decisionali». Un obiettivo impor­tante, soprattutto alla luce del confron­to che si è già aperto sul ritorno all’ato­mo nel nostro Paese.

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