È una mappa difficile da comporre, quella della prossima accoglienza dei migranti sul territorio italiano. Perché deve tenere insieme contemporaneamente numeri in grande crescita sul fronte degli arrivi, strutture tutte da trovare su base locale e delicati equilibri sociali da garantire. Una settimana fa la tragedia avvenuta col naufragio del barcone al largo della Libia ha scoperchiato, semmai ce ne fosse stato bisogno, un’emergenza umanitaria senza precedenti: anche ieri sono stati soccorsi 274 migranti dalla Marina Militare a bordo di un barcone fatiscente, a circa 40 miglia dal porto libico di Zuara. In sette giorni, la macchina per fronteggiare ingressi via mare e via terra ha cercato di mettersi in moto, tra mille difficoltà. Il cantiere è aperto e la cabina di regia ottenuta da Comuni e Regioni col governo è un primo passo, certo non sufficiente, come spiegano diversi sindaci, da Nord a Sud, di tutte le appartenenze politiche. I 20mila posti letto in più al mese chiesti dal Viminale rappresentano uno sforzo importante per le comunità, così come la disponibilità a raddoppiare fino a 40mila posti i numeri di accoglienza del sistema Sprar, il sistema di protezione dei migranti gestito dalle amministrazioni locali. «Già il 2014 è stato un anno record, con 170mila nuovi arrivi e 80mila immigrati rimasti poi sul territorio – spiega Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci all’immigrazione –. Quest’anno, poi, si aspetta una crescita dei profughi in entrata fino a quota 200-220mila, con 90-100mila persone destinate a rimanere. Se l’accoglienza e il nostro coinvolgimento sono doverosi, dobbiamo anche cercare di evitare frizioni coi territori, intervenendo in modo intelligente e con buon senso». I nodi da sciogliere sono molti, dall’uso di strutture come le caserme e gli alberghi per l’ospitalità alla disponibilità dei privati fino a una più equa distribuzione dei carichi da Nord a Sud e alla gestione stessa dei migranti, con possibili iniziative di volontariato sociale che coinvolgano gli stranieri, anche attraverso lavori di pubblica utilità.
Quali spazi trovareL’esperienza di questi anni è senza dubbio la base da cui partire per preparare il terreno dell’accoglienza. Il sindaco Pd di Pesaro, Matteo Ricci, l’ha ripetuto nei giorni scorsi al prefetto e agli altri primi cittadini della sua provincia, convocati per un tavolo
ad hoc. «Prendiamo il caso degli alberghi: da noi ce ne sono alcuni vecchi, in ristrutturazione, che in passato hanno preso la palla al balzo per trasformare l’ospitalità in un business. È una cosa sbagliata e da non ripetere, anche perché danneggia e snatura tutto il settore turistico». Quali spazi individuare, allora? «L’ideale sarebbe fare un ragionamento Comune per Comune, catalogando tutto ciò che è disponibile: ex palazzi pubblici, vecchie scuole, caserme inutilizzate messe eventualmente a disposizione dalla Difesa o già passate dal Demanio ai Comuni – continua Ricci –. Poi occorre trovare un meccanismo di volontariato sociale che permetta ai giovani profughi di rendersi utili: due ore al giorno per attività di quartiere, a piccoli gruppi e accompagnati dagli italiani». Quel che si vuole preservare, in questa fase, è la capacità inclusiva delle nostre comunità, compito non facile nella grande città così come nel paesino. In questo senso, il lavoro delle realtà ecclesiali e sociali è prezioso, anche per evitare la ghettizzazione dei nuovi arrivati. «Spesso a protestare per la distribuzione dei migranti sono proprio i sindaci di centri piccolissimi, che vedono la loro quotidianità stravolta» riflette Guido Castelli, Forza Italia, primo cittadino di Ascoli, secondo cui «non aiuta in un momento come questo il fatto che manchi una programmazione organica e tempestiva a livello centrale». Sull’idea avanzata dal presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino, di usare le caserme come centri di raccolta e smistamento dei profughi, Castelli ha qualche dubbio, «perché si tratta di luoghi di assembramento, dove è più difficile il controllo. Non vorrei diventassero degli
hub della disperazione».
Al lavoro insieme agli italianiRaccoglie consensi invece l’idea di "riempire" il tempo d’attesa (almeno un anno, un anno e mezzo) dei richiedenti asilo con progetti sul territorio. «Pensare a modalità che permettano a persone arrivate da lontano di restituire, alle comunità che se ne prendono carico, anche solo una parte di quanto ricevono in termini di accoglienza, mi sembra un principio di civiltà» dice Biffoni. «Sarebbe un fatto positivo, anche se la popolazione andrebbe preparata per tempo» precisa Castelli. Per legge, il costo del servizio messo a disposizione dei migranti si attesta a 35 euro al giorno, cifra che comprende vitto e alloggio. «Ci sono cooperative e associazioni pronte a gestire progetti del genere, si tratterebbe di ragionare sulle coperture assicurative e su alcuni problemi burocratici da superare» aggiunge Ricci, mentre una chiusura netta arriva dal sindaco leghista di Varese, Attilio Fontana. «Si è già tentato di farlo in passato, ma non è tecnicamente fattibile. Basta errori. E poi parlare di accoglienza senza alcuna prospettiva di integrazione è del tutto inaccettabile».Molto dipenderà anche dalla capacità del Viminale di esercitare una
moral suasion sul ministero della Giustizia, per abbreviare i percorsi di valutazione delle richieste di asilo in fase di ricorso, che attualmente non si sbloccano prima di un anno o un anno e mezzo, ingolfando l’intero sistema e prolungando i tempi di permanenza sui diversi territori.Sullo sfondo resta la necessità di un riequilibrio tra chi storicamente accoglie di più e chi invece fa meno. Ci sono Regioni del Sud come la Sicilia (in cui è presente il 22% dei profughi) e metropoli come Roma ormai giunte al punto di saturazione, mentre rimangono spazi per l’ospitalità, soprattutto al Nord. Il rapporto, secondo dati allo studio del governo, sarebbe di 12 a 8: 12 regioni farebbero cioè di meno di quanto potrebbero e 8, specularmente, farebbero di più. «Non ci si può affidare soltanto alle grandi città» ha spiegato nei giorni scorsi Fassino, provocando più di un mugugno tra i "piccoli" sindaci. È la prova che il confronto per costruire la mappa dell’accoglienza è in corso anche tra i sindaci e, sicuramente, si finirà per scontentare qualcuno.