21 ottobre 2011: i libici in festa per le strade di Tripoli dopo la morte di Gheddafi (Ansa)
Il primo, lungo, tragico capitolo della cosiddetta «primavera araba» si conclude verso la fine dell’anno. In Libia si combatte da mesi, e dall’estate è caccia aperta a Gheddafi. Così il 21 ottobre Avvenire in prima pagina ne annuncia la fine: L’ex dittatore scovato e colpito a morte a Sirte. È giallo sulla dinamica dell’uccisione. Festa nelle città. Italia soddisfatta. Il Vaticano riconosce il nuovo governo. Si va verso la fine dei raid». Questo era il catenaccio. Il titolo è realistico e sgombra il terreno dalle illusioni: «Guerra finita, pace da fare». Polemiche per il commento di Silvio Berlusconi: «Sic transit gloria mundi». Ma è sulla pace, una pace ardua e ancora lontana, che Avvenire insiste anche con Giorgio Ferrari (a pagina 5): «Adesso si tratta di rifondare interamente una nazione divisa». I lavori sono tuttora in corso e non si intravede la meta.
Il 2011 è l’anno della primavera araba. Ma quando è cominciata? Una data precisa forse non c’è. I primi disordini sono in Tunisia alla fine del 2010. L’8 gennaio arriva in prima pagina: «La rivolta del pane: guerriglia ad Algeri, scontri in Tunisia». Nel catenaccio la causa immediata: «L’aumento dei prezzi dei generi alimentari e la mancanza di lavoro sono all’origine delle sollevazioni popolari. Proteste e incidenti in molte città. Maghreb in fiamme». Il sommario ricorda le origini: «A Tunisi e in altre città la rivolta prosegue ormai da settimane, dopo il suicidio di un giovane disoccupato. Finora le vittime sono quattro». A pagina 4 i servizi di Daniele Zappalà e Camille Eid.
La rivolta del pane, è la sintesi estrema di Avvenire quell’8 gennaio 2011. A pagina 2 Riccardo Redaelli allarga lo sguardo: «Nell’acqua immota di uno stagno, basta la caduta di un semplice sasso per sconvolgerne la rigida calma. E nella palude dell’immobilismo politico che da decenni caratterizza tutta la sponda sud del Mediterraneo, quel malessere ormai incancrenito di disagio sociale, aspettative economiche frustrate, mancata rappresentanza politica, rabbia per la diffusa corruzione e per le strutturali inefficienze è sempre lì, pronto a riemergere. L’occasione classica è fornita dai rialzi dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, o dei prodotti energetici, fortemente sussidiati in quasi tutto il Medio Oriente, una trappola politico-economica da cui quei Paesi non riescono a uscire».
Da allora è un crescendo, che da Tunisia e Algeria tocca Egitto, Libia e Siria. Ecco alcuni titoli di prima dei giorni successivi. «Tunisia in fiamme, caos e coprifuoco. Ben Ali licenzia il suo ministro dell’Interno. Ribollono le piazze: morti e voci di golpe» (13 gennaio). «La protesta popolare tocca il regime di Gheddafi, che intanto libera cento prigionieri politici. In Iran saranno processati i leader dell’opposizione. Scontri in Yemen e Bahrein» (17 febbraio). A pagina 5 il commento di Camille Eid: «Il colonnello trema».
Il 18 gennaio Giorgio Ferrari affonda il coltello nella grande ipocrisia del "patto del silenzio" delle potenze europee che hanno coperto e tollerato i regimi illiberali arabi: «Tunisia, Algeria, Egitto, Marocco, Libia: il grande Maghreb che l’Europa si è messo letteralmente sotto i piedi, come fosse la polvere da nascondere sotto il tappeto, chiudendo gli occhi di fronte alle pseudo-democrazie che si affacciano sul Mediterraneo, alla risicata per non dir evanescente tutela dei diritti umani che in molte di esse alberga, attenta – l’Europa – soprattutto a due tornaconti: quello degli affari e quello della lotta al fondamentalismo e al terrorismo di matrice islamica».
E adesso? Avvenire mette in guardia dalle facili illusioni in più occasioni. Qui con Luigi Geninazzi (27 gennaio): «È qualcosa d’inaspettato e sorprendente questo movimento dal basso i cui protagonisti non sono i tradizionali partiti d’opposizione ma migliaia di giovani che condividono la stessa rabbia e le stesse speranze attraverso i social network. Purtroppo la storia ha dimostrato che, nei Paesi a maggioranza islamica, quando cade un dittatore subito ne sorge un altro».
Impossibile riassumere qui un anno intero di reportage e commenti. Valga, alla fine, la lucida e amara profezia di Geninazzi (24 febbraio, titolo «Per non cadere nell’incubo»): «In Libia convivono culture arabe, berbere e africane, una ricchezza che in questo caso diventa un elemento di grande debolezza. Sotto i colpi della rivolta e della repressione la Cirenaica ha già scelto di fatto la secessione, l’esercito si è spaccato. E c’è il rischio che nel vuoto di potere la popolazione sia abbandonata a se stessa, facile preda di bande jihadiste da sempre presenti nel Maghreb. Si verrebbe a creare una nuova Somalia. O, ancor peggio, un Afghanistan, ma ricco di petrolio, sulle rive del Mediterraneo. Uno scenario da incubo, con la prospettiva di una massiccia ondata migratoria sulle coste del nostro Paese». Nell’incubo, purtroppo, siamo sprofondati: ci siamo dentro, e ancora non si vede una via d’uscita.